Stiamo con i civili
di Gaza
C’è qualche possibilità che l’invasione militare di Gaza messa in atto da
Israele distrugga le
infrastrutture terroriste di Hamas - obiettivo ufficiale dell’operazione - e
faccia terminare i lanci di
razzi artigianali degli integralisti palestinesi che controllano la Striscia
sulle città israeliane di
frontiera? Penso che non ce ne sia nessuna e che l’operazione militare nella
quale, sino al momento
in cui scrivo, sono morti oltre 600 palestinesi - un gran numero di bambini e di
civili innocenti - e
che ha causato migliaia di feriti, avrà, nella comunità palestinese piuttosto
l’effetto d’una potatura
dalla quale uscirà rafforzata Hamas e parecchio indebolita la parte moderata,
l’Autorità Palestinese
guidata da Mohamed Abbas.
Per dare una parvenza di realtà al motivo brandito come giustificazione
dell’attacco da Ehud Olmert
e dai suoi ministri, Israele dovrebbe occupare Gaza con un immenso e permanente
spiegamento
militare o perpetrare un genocidio di cui neppure i suoi falchi più fanatici
oserebbero farsi carico e
che, speriamo, il resto del mondo non tollererebbe; anche se l’opinione pubblica
internazionale ha
mostrato, più d’una volta, una supina indifferenza per la sorte dei palestinesi.
La verità è che, per quanto feroce sia stata la punizione inflitta dall’esercito
d’Israele a Gaza e, anzi,
proprio a causa del sentimento d’impotenza e di odio per ciò che è accaduto al
milione e mezzo di
palestinesi che vivono ridotti alla fame e mezzo asfissiati in questa trappola,
è probabile che,
quando Tsahal si sia ritirato dalla Striscia e sia tornata «la pace», gli atti
terroristici riprendano con
maggior vigore e con un desiderio di vendetta attizzato dalle sofferenze di
questi giorni.
I fautori dei bombardamenti e dell’invasione rispondono a chi
li critica con questa domanda: «Sino
a quando un Paese può sopportare che le sue città siano bersaglio di razzi
terroristi lanciati dalle
frontiere per giorni e mesi da un’organizzazione come Hamas che non riconosce
l’esistenza di
Israele e non nasconde le sue intenzioni di distruggerlo?». L’interrogativo è
davvero molto
pertinente e nessuno, a meno che non sia un terrorista o un fanatico, può
trovare giustificazioni alla
continua stretta criminale che Hamas esercita sulla popolazione civile
d’Israele. D’accordo. Ma se
si tratta di cercare le ragioni del conflitto non è onesto, a mio modo di
vedere, fermarsi solo a
questo, ai razzi artigianali di Hamas, e non andare, invece, un po’ indietro nel
tempo per capire - il
che non vuol dire giustificare - ciò che accade in quest’esplosivo angolo di
mondo. La vittoria
elettorale che ha portato Hamas al potere nella Striscia non è stato un atto di
massiccia adesione dei
palestinesi di Gaza né al fanatismo integralista né alle azioni terroristiche,
ma un modo del tutto
legittimo con il quale i cittadini hanno detto no all’inefficienza e,
soprattutto, alla vergognosa
corruzione dei dirigenti dell’Autorità Nazionale Palestinese. E, anche, un
tipico atto di
autodistruzione verso la quale gli esseri umani, individualmente o
collettivamente, si orientano
quando toccano situazioni limite di debolezza e di disperazione totale.
Indubbiamente la ritirata israeliana da Gaza e l’abbandono dei 21 insediamenti
di coloni che lì
s’erano stabiliti, nell’estate del 2005, suscitò grandi speranze che questo
gesto potesse dare impulso
al processo di pace destinato a portare alla creazione d’uno Stato palestinese
che coesistesse con
Israele e fosse garanzia della sua futura sicurezza. Non solo tutto ciò non
accadde: Hamas si ribellò
e i suoi scontri con Al Fatah - con sparatorie e uccisioni - da una parte e,
dall’altra, la politica di
Israele volta a isolare Gaza e a mantenerla in una condizione d’implacabile
quarantena impedendole
di esportare e di importare, vietandole l’utilizzo del cielo e del mare,
concedendo alla popolazione
di uscire da questo ghetto solo con il contagocce e dopo pratiche burocratiche
opprimenti e
umilianti, contribuirono a determinare quel grande «fallimento economico» che
oggi i falchi
d’Israele mostrano come prova dell’incapacità dei palestinesi di autogovernarsi.
Mi domando se qualsiasi Paese del mondo avrebbe potuto progredire e
modernizzarsi nelle atroci
condizioni in cui vive la gente di Gaza. Non parlo per sentito dire, non sono
vittima di pregiudizi
nei confronti di Israele, un Paese che ho sempre difeso, in particolare quando
era al centro d’una
campagna internazionale orchestrata da Mosca che appoggiava tutta la sinistra
latino-americana. Ho
visto le cose con i miei occhi. E ho provato nausea e indignazione per la
miseria atroce,
indescrivibile in cui languono senza lavoro, senza futuro, senza spazio per
vivere, negli antri stretti
e immondi dei campi profughi o in quelle città sommerse dalla spazzatura dove i
topi scorrazzano
sotto gli occhi pazienti dei passanti, le famiglie palestinesi condannate a
poter solo vegetare, ad
aspettare che la morte arrivi a mettere fine a un’esistenza senza speranza,
completamente inumana.
Sono questi poveri infelici, bambini e vecchi e giovani, privati ormai di tutto
ciò che rende umana la
vita, condannati a un’agonia ingiusta proprio come quella degli ebrei nei ghetti
dell’Europa nazista,
quelli che, ora, vengono massacrati dai caccia e dai carrarmati d’Israele, senza
che tutto ciò serva
per avvicinare d’un solo millimetro la sospirata pace. Al contrario, i cadaveri
e i fiumi di sangue di
questi giorni serviranno solo ad allontanarla, la pace, e ad alzare nuovi
ostacoli e a seminare altri
risentimenti e altra rabbia sulla strada dei negoziati.
Tutto questo lo sanno - molto meglio di me e di qualsiasi altro osservatore - i
dirigenti d’Israele. La
classe dirigente d’Israele è di altissimo livello, assai più colta e preparata
rispetto alla media
dell’Occidente. E se è così, perché, allora, scatenare un’operazione militare
che non sconfiggerà il
terrorismo dei fanatici di Hamas e che, in cambio, serve solo a screditare uno
Stato che, con azioni
punitive come questa, ha ormai perso quella superiorità morale mostrata in
passato nei confronti dei
suoi nemici quando Yitzhak Rabin firmò gli accordi di Oslo del 1993?
Credo che la risposta sia questa: dal fallimento dei negoziati di Camp David e
di Taba del 2000/2001
in cui il governo israeliano guidato da Ehud Barak era disposto a fare
importanti concessioni
che Arafat fu così sconsiderato da rifiutare, la società israeliana,
profondamente delusa, ha vissuto
una deriva destrorsa radicale e, per massima parte, legata alla convinzione che
con i palestinesi non
siano possibili accordi ragionevoli. E che, quindi, solo una politica basata
sulla forza, sulla
repressione e su sistematiche punizioni li piegherà inducendoli ad accettare,
alla fine, una pace
imposta secondo le condizioni di Israele. Questo spiega la popolarità avuta da
Ariel Sharon e il
crescente appoggio al movimento dei coloni che continuano a installare
insediamenti ovunque in
Cisgiordania e alla costruzione del Muro che isola e divide la Cisgiordania
palestinese. E ciò spiega,
inoltre, perché, da quando le bombe hanno incominciato a piovere su Gaza, sia
schizzata in avanti,
come una freccia, la popolarità dei laburisti di Ehud Barak, l’attuale ministro
della Difesa, e della
leader di Kadima, la cancelliera Tzipi Livni, i quali, grazie all’operazione
militare contro Gaza,
hanno ridotto il vantaggio che, in vista delle prossime elezioni, aveva nei loro
confronti il
conservatore Benjamin Netanyahu. Non bisogna dimenticare che, secondo indagini
demoscopiche,
oltre due terzi degli israeliani approvano l’azione militare contro Gaza.
«I nostri cuori si sono induriti e i nostri occhi si sono coperti di
nuvole», dice il giornalista
israeliano Gideon Levy in un articolo pubblicato sul giornale Haaretz il 4
gennaio 2009
commentando l’incursione di Tsahal a Gaza. Come tutto ciò che scrive, il suo
testo è ricco di onestà,
lucidità e coraggio. È un rimpianto per questa progressiva scomparsa della
morale nella vita politica
del suo Paese - quel fenomeno che, secondo Albert Camus, precede sempre i
cataclismi della storia
- e una critica a quegli intellettuali progressisti come Amos Oz e David
Grossman che, prima,
levavano le loro energiche proteste contro eventi quali il bombardamento di Gaza
e, adesso,
timidamente, rispecchiando la generale involuzione della vita politica
israeliana, si limitano a
invocare la pace.
Mario Vargas Llosa La Stampa 13
gennaio 2009