Stato, Chiesa e lo spirito perduto del Concordato

 Vorrei riuscire a esprimere nel modo più chiaro un discorso complesso che potrebbe sintetizzarsi nelle pro­posizioni seguenti: il Concordato presuppone una doppia convergente "disposizione costituzionale" delle due parti contraenti, lo Stato e la Chiesa; questa disposizione consiste, per lo Stato, nel principio di laicità contenuto nel­la sua Costituzione e, per la Chiesa, nella distinzione tra religione e politica proclamata dal Concilio Vaticano II; questo duplice presupposto si sta dissolvendo e, con esso, sta franando la base di legittimità del Concordato stesso. Onde, il pericolo di rinnovate storiche divisioni e di grave nocumento per tutti.

Sebbene si presenti come semplice modificazione, il "nuovo concordato" tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica del 1984 ha basi completamente diverse da quelle del "vecchio concordato" del 1929. Lo Stato era allora lo stato fascista e la Chiesa era ancora la chiesa tridentina (ritorneremo sul punto). Ora, invece, il nuovo concordato è stato stipulato, come è detto solennemente nel preambolo, «avendo presenti, da parte della Repubblica Italiana, i principi sanciti dalla sua Costituzione, e, da parte della Santa Sede, le dichiarazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II circa la libertà religiosa e i rapporti fra la Chiesa e la comunità politica». Questi documenti non fanno solo da sfondo al nuovo accordo, ma ne sono anche le premesse e, al tempo stesso, le condizioni che l'hanno reso possibile e ne sostengono la validità. Un mutamento d'identità dell'uno o dell’altro contraente, contro la Costituzione e contro la dottrina del Concilio, travolgerebbe il Concordato, corrodendone le basi di legittimità.

L'identità della Chiesa si era allora appena delineata nella grande riflessione del Concilio Vaticano II che tanta speranza aveva suscitato sia nel mondo cattolico non clericale, sia in quello laico interessato a un dialogo onesto e fruttuoso col primo. La costituzione Gaudium et spes (capitolo IV, n. 76) è molto netta nell'affermare che «la Chiesa, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica». La sua missione non è governare ma diffondere il messaggio evangelico, illuminando così la vita sociale e promuovendo il "bene comune". Le "cose temporali" interessano la Chiesa perché anch'essa è di questo mondo, ma solo «nella misura che la propria missione richiede. Essa, invero, non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall'autorità civile»; è pronta, anzi, a rinunciarvi, pur quando legittimamente acquisiti, ove fossero motivo di scandalo, cioè «potessero far dubitare della sincerità della sua testimonianza». Queste proposizioni finivano per confluire nella solenne proclamazione dell'indipendenza e dell'autonomia della comunità politica e della Chiesa, l'una dall'altra nel proprio campo: autonomia e indipendenza reciproche che dovevano costituire la premessa di future "sane collaborazioni" per la difesa e la valorizza­zione della persona umana.

Il Concilio fu salutato come un segno provvidenziale che riconduceva la Chiesa alla sua funzione evangelizzatrice e l'alleggeriva delle compromissioni col potere poli­tico che, per non dire di più, l'han­no appesantita e intorpidita nel corso dei duemila anni della sua storia. Chiunque abbia anche solo una vaga idea di questa storia non fatica a comprendere le novità di questo ritorno alle ragioni originarie. Se le reazioni della Chiesa del potere furono, e continuano a essere, di sorda resistenza, la Chiesa della profezia vide rispecchiate in quelle proposizioni le sue più vive speranze.

La Chiesa finiva così per incontrare lo Stato nella medesima con­cezione del reciproco rapporto. Il primo comma dell'art. 7 della Costituzione: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani», si trova ripetuto, quasi alla lettera, nella formula della Gaudium et spes: indipendenza e autonomia, nel proprio campo, della comunità politica e della Chiesa.

Queste parole non sono del tutto nuove nella dottrina della Chiesa. Nell'Enciclica Immortale Dei del papa Leone XIII (1885) leggiamo che «Dio volle ripartito tra due poteri il governo del genere umano, cioè il potere ecclesiastico e quello civile, l'uno preposto alle cose divine, l'altro alle umane. Entrambi sono sovrani nella propria sfera; entrambi hanno limiti definiti alla propria azione, fissati dalla natura e dal fine immediato di ciascuno». Sennonché, subito dopo si aggiunge un passo che il Vaticano II ha lasciato cadere, segnando così una grande distanza: «Ma poiché l'uno e l'altro potere [dello Stato e della Chiesa] si esercitano sugli stessi soggetti, e può accadere che una medesima cosa, per quanto in modi diversi, venga a cadere sotto la giurisdizione dell'uno e dell' altro, l'infinita Provvidenza divina [...] deve pure avere composto in modo ordinato e armonioso le loro rispettive orbite [...] Tutto ciò che nelle cose umane abbia in qualche modo a che fare col sacro, tutto ciò che riguardi la salvezza delle anime e il culto di Dio, che sia tale per sua na­tura o che tale appaia per il fine cui si riferisce, tutto ciò cade sotto l'autorità e il giudizio della Chiesa». In sostanza: su tutto ciò in cui, insindacabilmente, scorgeva una rilevanza per la religione, la Chiesa rivendicava il diritto preminente di comandare e giudicare, mentre lo Stato doveva piegarsi. Si trattava, in fondo, di una delle tante riformulazioni della dottrina del cardinale Roberto Bellarmino, in vigore dalla Controriforma in poi, cioè della dottrina della potestas indirecta in temporalibus: competenza ordinaria dello Stato, ma lecita ingerenza della Chiesa tutte volte che avesse invocato una ragione religiosa.

Il Vaticano Il non esclude affatto il diritto, anzi il dovere della Chiesa di pronunciarsi su qualunque ma­teria, anche rientrante nella giurisdizione dello Stato, per enunciare i principi cristiani pertinenti. Ma queste pronunce sono destinate alla coscienza dei credenti e, in genere, a coloro che liberamente rico­noscono alla Chiesa un'autorità morale. Data l'autonomia delle cose temporali, poi, l'articolazione pratica delle scelte contingenti è rimessa all'autonomia dei laici, credenti e non, sotto la loro responsabilità. Solo così la Chiesa può svolgere la sua missione senza confondersi con lo Stato. La dottrina che dal Bellarmino, tramite Leone XIII, arriva fino alle soglie del Concilio, teorizza invece la commistione, at­tribuendo alla Chiesa poteri di comando e giudizio sulle autorità statali. Mentre il Vaticano II presuppone una società politica autonoma, nella quale la Chiesa, come ogni altra autorità morale, può far sentire la sua voce nella libera e paritaria discussione, con la potestas indirecta essa si auto attribuisce il diritto di rivolgersi a chi dispone di poteri nel mondo per dettare legge vincolante per tutti.

Nella realtà degli odierni rapporti tra Stato e Chiesa, riconosciamo più facilmente la dottrina del Concilio o quella di Bellarmino? La questione non riguarda la definizione dei temi su cui la Chiesa intende impegnarsi. Non è questo il punto: qualsiasi materia può coinvolgere la morale cristiana. Riguarda invece gli interlocutori che essa si sceglie, le coscienze individuali o i po­teri costituiti. Questa è la verifica decisiva e la risposta è evidente; la Chiesa - parlo delle sue attuali espressioni gerarchiche - sta ritor­nando a essere, o forse non ha mai smesso d'essere, la potestas indi­recta d'un tempo. Essa, per affer­mare i suoi principi morali, privilegia e perfino ostenta il rapporto che detiene con capi politici o dirigenti di gruppi, associazioni, movimenti che organizzano il consenso da cui, in democrazia, alla fine, anche le fortune dei capi politici dipendono. Li convoca, li raduna, vi si mescola, li seduce e, dove occorre, li ammonisce; ed essi si fanno convocare, radunare, mescolare, sedurre e ammonire, non mancando ragio­ni di convenienza per farlo. La commistione e la collusione non sono forse mai state, negli ultimi tempi, tanto evidenti. La Chiesa del Vaticano II pensava principalmen­te ad altri interlocutori per trasformare la società: le coscienze individuali, non i poteri mondani. Il preambolo del Concordato, per questa parte, sta cadendo in macerie.

 

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E dall'altra parte, come si presenta lo Stato all'incontro concordatario? La Costituzione, italiana proclama la pari dignità sociale di tutti i cittadini e l’uguaglianza davanti alla legge, senza distinzione di religione (art 3); il diritto di tutti di professare liberamente la propria  fede religiosa (art.19) e l'uguale libertà di tutte le confessioni religiose (art. 8): principi che non varrebbero nulla se non si tenesse ferma la distinzione tra gli "ordini" propri, dello Stato e della Chiesa cattolica, secondo il già citato articolo 7. Nella celebre e più volte ribadita sentenza n. 203 del 1989 della Corte costituzionale, tutte queste proposizioni sono state riassunte nell'idea di laicità, alla quale si è attribuito il valore di "principio supremo" della forma del nostro Stato. Questa, secondo la Costituzione cui si richiama il preambolo del Concordato, è l'identità dell'altro contraente il patto concordatario, lo Stato italiano.

Ma rivolgiamoci alla realtà. Il cattolicesimo è oggi in auge forse più che come religione delle persone, come (surrogato di una) religione civile. Con molta leggerezza, si parla di supplenza della religione rispetto al difetto di idealità che si vede nella politica attuale. Le nostre società laicizzate non avrebbero in se stesse le risorse morali sufficienti per fondare un'unità durevole e, invece di cercare di darsele, dovrebbero riconoscere umilmente la loro minorità di fronte alla religione cattolica. Da qui al riconoscimento, forse non teorico ma almeno pratico, che la legge civile deve basare la sua forza sulla coincidenza con la morale cattolica e che la legittimità dei governanti non può prescindere dal consenso e dalla benevolenza dell'autorità ecclesiastica, il passo è breve.

Il cattolicesimo-religione civile sembra essere assai gradito, per i vantaggi materiali immediati che ne possono derivare, sia gli uomini di chiesa che quelli di stato. Questa idea politica della religione cristiana, pur ben radicata nella storia e nella dottrina già dei Padri della Chiesa fin dal IV secolo, sembrerebbe essere una bestemmia dal punto di vista del messaggio di Gesù di Nazareth, ridotto a strumento di governo o a ideologia. In ogni caso, è un'aberrazione dal punto di vista di quel supremo principio di laicità che sta scritto nella Costituzione. La distinzione e l'autonomia dei due "ordini" ha statuito ancora la Corte costituzionale nella sentenza n. 334 del 1996 - esclude che si possa fondare l' autorità delle leggi civili su obbligazioni religiose. Il che precisamente contraddice, anche dal punto di vista dello Stato, la tentazione di usare il cattolicesimo, o qualunque altra religione, come religione civile.

Si dirà: ma qui si fa confusione! Una cosa è l'uso politico-statale del cattolicesimo; altra cosa, l'uso sociale: vietatissimo il primo, lecitissimo il secondo. Guardiamo ai comportamenti. Che cosa ci dico­no gli incontri, quelli che vediamo e i tanti altri che non vediamo, tra uomini di Stato e di Chiesa, tra melliflui sorrisi e reciproci salamelecchi, in cui la religione si compromette alla politica e la politica alla religione; quegli incontri da cui scaturiscono attese di appoggio alle aspirazioni degli uni e degli altri che si traducano in indicazioni elettorali e privilegi legali? Si tratta davvero solo di illuminare cristianamente la società o non piuttosto di inquinare clericalmente la poli­tica?

Anche sul versante statale, dunque, quell' «aver presenti i principi costituzionali» che apre il preambolo del Concordato pare assai svuotato. Ma questo svuotamento cospira con quello dei principi conciliari che riguarda la Chiesa. Vanno nella stessa direzione, non si creano frizioni. Ognuno ci trova un proprio misero vantaggio. Così si spiega perché nessuna delle due parti ha mai posto problemi di ri­spetto del Concordato. Anzi, più ci si allontana dallo spirito, più si fa a gara nel lodare la propria e l'altrui fedeltà concordataria, la propria e altrui "sana" concezione della laicità. Con quest'aggettivazione (la "sana" laicità, la "vera" libertà, la "autentica" democrazia, ecc.), non si contribuisce al dialogo e alla comprensione, poiché ci si fa giudici in causa propria e si squalifica l’interlocutore, come portatore di idee "insane", "false", "contraffatte". Ma le difficoltà si imporranno da sé e non sarà con gli aggettivi che le si risolverà. Non è facile dire quanto questa sospetta concordia potrà durare indisturbata; fino a quando si potranno alzare le spalle dicendo: sono polemiche d'altri tempi, "ottocentesche". Tra molti credenti e molti non credenti, per ragioni sia di fede sia di democrazia, cresce l’insofferenza, nella stessa misura in cui crescono i privilegi della Chiesa cattolica - quei privilegi cui essa si è dichiarata disposta a rinunciare quando facessero scandalo (e sarebbe il caso di riconoscere che effettivamente fanno scandalo) - e cresce la corsa all' investitura ecclesiastica del no­stro ceto politico. Non fosse altro che per prudenza, sarebbe un errore non tenerne conto.

 

Gustavo Zagrebelsky       la Repubblica 25 novembre 2005