SMETTIAMO DI CRESCERE
Consumiamo per consumare in una spirale infinita
che ci rende nevrotici e fatui, ma un rimedio è possibile
L´economia sembra governata da un dio ignoto i cui
disegni sono segreti
Compriamo sempre più merci per compensare la mancanza di
relazioni
Che cosa prova la gente a diventare collettivamente più povera? Non parlo dei poveri che il fisco risparmia e neppure di quelli per i quali 200 milioni di euro equivalgono ai nostri 200 euro, ma di quella classe media che, essendo diventata negli ultimi decenni la classe di tutti, ha finito per dissolvere perfino le rivendicazioni di classe, sostituendole con le rivendicazioni di categoria.
Si può sempre dire che un po´ di povertà non fa male,
raddrizza i costumi che abbiamo spinto un po´ all´eccesso, spopola i ristoranti
dove la troppa gente non riesce più a scambiar parola, riduce il traffico che ha
trasformato le vie della nostra città in un unico grande parcheggio, allenta la
morsa dei weekend forzati, assottiglia, nelle agenzie di viaggio, le folle di
quanti pensano che basta cambiar cielo per cambiar animo.
Le discoteche chiuderanno qualche ora prima, alcuni giovani vedranno ridotte le
loro chances di finire direttamente al cimitero, chances che purtroppo
aumenteranno per quanti non riusciranno a tener dietro al costo dei farmaci, o
più semplicemente alla qualità degli alimenti a cui è da addebitare quel
prolungamento della vecchiaia che in Occidente siamo soliti chiamare
allungamento della vita.
Eppure, nonostante questi vantaggi secondari, un senso di inquietudine pervade
sia i singoli individui sia le imprese che si sentono impotenti a modificare
l´andamento dell´economia la quale, per effetto della globalizzazione e forse
della supremazia dell´aspetto finanziario (e virtuale) su quello produttivo (e
reale), sembra sia divenuta qualcosa di trascendente, qualcosa di governato
da un dio ignoto, i cui disegni nessuno davvero conosce.
Tutto ciò comporterà, come dicono gli economisti, un
rallentamento della crescita, quando non addirittura una crescita zero. E qui
siamo a quella parola subdola: «crescita», che gli economisti applicano sia ai
paesi diseredati che raccolgono tra l´altro i quattro quinti dell´umanità, sia
ai paesi già sviluppati che nonostante ciò «devono crescere». Fin dove? E a
spese di chi? E a quali costi ambientali? Qui l´economia tace perché il
problema non è di sua competenza, e con l´economia tacciono anche le voci degli
uomini che alle leggi dell´economia si devono piegare.
Quando dico «economia» non dico solo agricoltura, commercio, industria e
finanza, ma dico soprattutto mentalità diffusa, modo di sentire, categoria dello
spirito del nostro tempo, perché questo è diventato, nel modo di pensare e di
sentire di tutti, l´imperativo categorico della crescita.
Figli come siamo di padri, che a loro volta sono cresciuti sul lavoro dei nonni, siamo ormai alla terza o quarta generazione che cresce con un ritmo che la storia non ha mai conosciuto. La categoria della crescita è così diventata una forma mentis, uno stato d´animo, un rimedio all´angoscia, una garanzia per sé e per i propri figli, una caparra per il futuro, per cui, se per effetto di Maastricht, se per mettere in ordine i conti, se per una finanziaria dura questa speranza nella crescita si affievolisce accade una paralisi del pensiero, una confusione del sentimento, un´ansia per il futuro, un senso di inquietudine come quando sugli aerei si infila un vuoto d´aria e tutti composti ostentiamo quella tranquillità smentita dai brividi del nostro ventre che però avvertiamo solo noi.
E così ciascuno per sé sente il brivido della crescita zero
a cui non sa con che strumenti reagire, soprattutto se ha il sospetto che la
crescita zero sarà sempre più il nostro futuro, non solo perché non possiamo
continuare a pensare che i quattro quinti dell´umanità continuino a sacrificarsi
per la nostra crescita, ma perché quando la crescita non ha altro scopo che
continuare a crescere, è l´uomo stesso del mondo privilegiato a divenire
semplice «funzionario» di questa idea fissa che, se diventa lo scopo collettivo
della vita di tutti, affossa e seppellisce il «senso» della vita, il suo sapore,
il suo significato per noi.
Se in cambio dei soldi che toglie dalle nostre tasche, la crescita zero ci desse
l´opportunità concreta di incominciare a riflettere sull´assurdo ritmo che aveva
acquistato la nostra esistenza, sulla qualità della nostra comunicazione ormai
troppo mediata, sulla natura un po´ ambigua del nostro amore fatto ormai di sole
cose, e soprattutto sul fatto che regolare tutto sul modello di una crescita
all´infinito ha parentela con l´assurdo, allora anche la crescita zero, che
finora tocca solo i nostri soldi e non la nostra pelle o la dignità dell´uomo
come ancora accade in troppe parti del mondo, può essere accettata come una
buona occasione per raddrizzare non solo il nostro costume, ma anche la qualità
del nostro sguardo sulla vita e sul mondo.
Ciò può avvenire incominciando magari a rinunciare
all´individualismo sfrenato e aggressivo degli ultimi decenni, per
privilegiare il «noi» rispetto all´«io». Il noi del volontariato, della
reciproca assistenza, della familiarità del borgo rispetto all´anonimato della
metropoli, il noi della convivialità, dei comportamenti virtuosi in ordine alla
circolazione stradale, alla scelta e al consumo dei cibi, alle condotte a
rischio, agli stili di vita.
Valori non economici, dettati non dalla rassegnazione di chi è consapevole di
non poter controllare o modificare l´andamento dell´economia, ma dal rifiuto a
sacrificare la propria esistenza al mito della crescita, che visualizza gli
uomini solo come produttori e consumatori.
Con l´aggravante che in una società che visualizza se stessa
solo in termini di sviluppo e di crescita, il consumo non deve essere più
considerato, come avveniva per le generazioni precedenti, esclusivamente come
soddisfazione di un bisogno, ma anche, e oggi soprattutto, come mezzo di
produzione. Là infatti dove la produzione non tollera interruzioni, le merci
«hanno bisogno» di essere consumate, e se il bisogno non è spontaneo, se di
queste merci non si sente il bisogno, occorrerà che questo bisogno sia
«prodotto».
In una società opulenta come la nostra, dove l´identità di ciascuno è sempre più
consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo sono sostituibili, ma
«devono» essere sostituiti, può darsi che si cominci ad avvertire, sotto quel
mare di pubblicità che ogni giorno ci viene rovesciato addosso, una sorta di
appello alla distruzione, una forma di nichilismo dovuto al fatto, come scrive
Gunther Anders, che: «L´umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar
via, tratta anche se stessa come un´umanità da buttar via».
Se nel sottosuolo della nostra anima collettiva si fa strada questa sensazione che muta la gerarchia dei nostri pensieri e la forma dei nostri comportamenti, anche il profilo del lavoro potrebbe mutare. Oggi, infatti, come ci ricorda Franco Totaro nel suo bel libro Non di solo lavoro (Vita e Pensiero), sotto l´imperativo della crescita il lavoro è visualizzato nel solo ambito dell´economia, e ciò vuol dire che solo l´economia è in grado di dare espressione all´uomo, il quale non avrebbe come suo riferimento altro orizzonte di senso se non quello determinato dal fare produttivo.
A sua volta il lavoro, non avendo altra finalità se
non quella di concorrere all´incremento infinito della produzione non sarebbe
più il luogo in cui l´uomo, realizzandosi, incontra se stesso, le sue capacità,
le sue ideazioni, l´attuazione della sua progettualità, ma solo il luogo in cui
l´uomo tocca con mano la sua «strumentalità», il suo essere semplice appendice
delle macchine, che nel loro insieme compongono l´apparato tecnico-economico,
interessato solo al proprio potenziamento e non alle sorti dell´uomo.
Perché allora non passare gradatamente dal «lavoro come produzione» (che ha in
vista solo la sua crescita esponenziale senza ragione e senza perché) al «lavoro
come servizio» dove la produzione non ha in vista solo beni e merci (di cui al
limite non sappiamo neanche cosa farcene, se non fosse per i bisogni e i
desideri indotti, cioè a loro volta prodotti), ma anche erogazione di tempo,
di cura, di relazione.
I profili lavorativi che potrebbero nascere da questa nuova
visualizzazione del lavoro (di cui la società già sente a livello massiccio
l´esigenza, se dobbiamo giudicare dal gran numero di persone che si dedicano al
volontariato) sarebbero profili lavorativi che potrebbero trovare non solo una
reale e massiccia domanda, ma anche un significativo riconoscimento economico,
se l´economia, che pensa sempre e solo alla produzione, sapesse diversificare i
suoi prodotti e incominciare a produrre non solo merci e sempre più merci, ma
anche e in misura crescente servizi per la persona e per la relazione tra le
persone.
Nel mondo dell´opulenza compriamo, in modo maniacale merci e sempre più merci
per compensare la depressione che ci deriva dalla mancanza di relazioni, che
siano vere e non solo funzionali come esige la logica del lavoro. Non sarebbe
impossibile invertire la tendenza, perché la felicità, nonostante la pubblicità
vi alluda, non ci viene dall´ultima generazione di telefonini o di computer, e
più in generale di «prodotti», ma da uno straccio di «relazione» in più che
il lavoro come servizio (e non solo come produzione) potrebbe incominciare a
garantire.
UMBERTO
GALIMBERTI La Repubblica, 2-9-05