Il silenzio che
manca in Vaticano
C’è forse una parte di verità in quello che si dice delle ultime parole e azioni
di Benedetto XVI:
comunicare quel che pensa gli è particolarmente difficile. Sempre s’impantana,
mal aiutato da chi lo
circonda. Sempre è in agguato il passo falso, precipitoso, mal capito. Il
pontefice stesso, nella lettera
scritta ai vescovi dopo aver revocato la scomunica ai lefebvriani, enumera gli
errori di gestione
sfociati in disavventura imprevedibile. Confessa di non aver saputo nulla delle
opinioni del vescovo
Williamson sulla Shoah («Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie
raggiungibili
mediante l'Internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a
conoscenza del
problema»). Ammette che portata e limiti della riconciliazione con gli
scismatici «non sono stati
illustrati in modo sufficientemente chiaro». Poi tuttavia sono venuti
altri gesti, e l’errore di gestione
non basta più a spiegare. È venuta la scomunica ai medici che hanno
fatto abortire una bambina in
Brasile, stuprata e minacciata mortalmente perché gravida a 9 anni. La
scomunica, che colpisce
anche la madre, è stata pronunciata da Don Sobrinho, arcivescovo di Olinda e
Recife: il Vaticano
l’ha approvata. Infine è venuta la frase del Papa sui profilattici, detta
sull’aereo che lo portava in
Africa: profilattici giudicati non solo insufficienti a proteggere dall’Aids -
una verità evidente - ma
perfino nocivi.
C’è chi comincia a vedere patologie. Una quasi follia, dicono alcuni. L’ex
premier francese Juppé
parla di autismo.
Sono spiegazioni che non aiutano a capire. C’è del
metodo in questa follia. C’è il riaffiorare
possente di un conservatorismo che ha seguaci e non è autistico. Sono
più vicini al vero coloro che
stanno tentando di resuscitare il Concilio Vaticano II, nel cinquantesimo
anniversario del suo
annuncio, e vedono nella disavventura papale qualcosa di più profondo:
l’associazione Il Nostro 58,
sorretta da Luigi Pedrazzi a Bologna, considera ad esempio la presente tempesta
una prova
spirituale. Una prova per il Papa, per i cattolici, per la pòlis laica:
l’occasione che riesumerà lo
spirito conciliare o lo seppellirà. Non si è mai parlato tanto di Concilio come
in queste settimane
che sembrano svuotarlo. Le figure di Giovanni XXIII e Paolo VI risaltano più che
mai. Chi legga
l’ultimo libro di Alberto Melloni sul Papa buono capirà più profondamente quel
che successe allora,
che succede oggi. Capirà che quello straordinario Concilio è appena cominciato,
e avversato oggi
come allora. Quando Papa Roncalli lo annunciò, il 25 gennaio ’58 nella basilica
di San Paolo, solo
24 cardinali su 74 aderirono (7 nella curia). Inutile invocare un Concilio
Vaticano III se il secondo è
ai primordi.
Eppure son tante le parole papali che contraddicono errori, avventatezze. Il
filosofo Giovanni Reale
sul Corriere della Sera ne ricorda una: «All’inizio dell’essere cristiano non
c’è una decisione etica o
una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà
alla vita un nuovo
orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Enciclica sull'Amore). Se in
principio non c’è un dogma
ideologico diventa inspiegabile la durezza vaticana sul fine vita, conclude
Reale. Diventa
inspiegabile anche la chiusura su profilattici e controllo delle nascite in
Africa, dove Aids e
sovrappopolazione sono flagelli.
In realtà il Papa sostiene, nella lettera ai vescovi, che «il vero problema in
questo nostro momento
della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini, e che con lo
spegnersi della luce
proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento». È un
annuncio
singolare, perché chi certifica la catastrofe? E il certificatore non tenderà a
un potere fine a se
stesso? Se Dio davvero scompare, tanto più indispensabile è l’autorità del
suo vicario: una
tentazione non del Papa forse - che nell’orizzonte nuovo pareva credere - ma di
parte della Chiesa.
L’auctoritas diventa più importante dell’incontro con
Gesù: urge affermarla a ogni costo. Così come
più importante diventa la gerarchia, rigida, astratta, dei valori. In un
orizzonte vuoto non restano che
astrazione e potere. L’arcivescovo brasiliano afferma il monopolio sui
valori, innanzitutto: «La
legge di Dio è superiore a quella degli uomini»; «L’aborto è molto più grave
dello stupro. In un caso
la vittima è adulta, nell’altro un innocente indifeso». E si è felicitato degli
elogi del cardinale
Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione dei vescovi. Né Sobrinho né
Re vedono l’uomo:
né l’uno né l’altro vedono che la bambina ingravidata non è adulta.
Non vedono l’essere umano, il legno storto di cui è fatto: proprio quello che
invece vide Giovanni
XXIII, alla vigilia del Concilio. Melloni ricorda l’ultima pagina del Giornale
dell’Anima di
Roncalli, scritta il 24 maggio ’63, pochi giorni prima di morire: «Ora più che
mai, certo più che nei
secoli passati, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i
cattolici; a difendere,
anzitutto e dovunque, i diritti della persona umana e non solo quelli della
chiesa cattolica. (...) Non è
il Vangelo che cambia: siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio».
Comprenderlo meglio
era «riconoscere i segni dei tempi». O come dice Melloni: indagare l’oggi.
Vedere nell’uomo in
quanto tale il vangelo che parla alla Chiesa, e «non semplicemente il
destinatario del messaggio, o il
protagonista di un rifiuto, ovvero - peggio ancora - il mendicante ferito di un
“senso” di cui la
Chiesa sarebbe custode indenne e necessariamente arrogante» (Papa
Giovanni, Einaudi, 2009).
Questi mesi erranti e maldestri sono una prova perché gran parte della
Chiesa non pensa come il
Papa: dà il primato alla libertà, alla coscienza, sul dogma. Indaga
l’oggi, specie dove l’uomo è
pericolante come in Africa o nelle periferie occidentali. Ricordiamo Suor
Emmanuelle, che a 63
anni decise di vivere con gli straccivendoli nei suburbi del Cairo, e un giorno
scrisse una lettera a
Giovanni Paolo II in cui illustrò la necessità delle pillole per bambine
continuamente ingravidate.
Lo narra in un libro scritto prima di morire (J'ai 100 ans et je voudrais
vous dire, Plon). Distribuiva
profilattici senza teorizzare su di essi.
Giovanni Paolo II non rispose alla lettera. La sintonia con Ratzinger era forte.
Ma il silenzio ha un
pregio inestimabile, è un’apertura infinita all’umano. Suor Emmanuelle gli fu
grata: disse che il suo
silenzio era un balsamo. È il silenzio che oggi manca in Vaticano. Il
silenzio che pensa, ha sete di
sapienza, ascolta. Che non vede orizzonti vuoti. Il Vangelo è sempre lì,
va solo compreso meglio.
Contiene una verità che sempre riaffiora, quella detta da Gesù a Nicodemo: «Lo
spirito soffia dove
vuole. Ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va» (Giovanni 3,8).
Soffia come il fato
delle tragedie greche: innalzando gli impotenti, spezzando l’illusione della
forza. Chi fa silenzio o è
solitario lo lascia soffiare, afferrato dal mistero. In Africa, il Papa ha
accennato al «mito» della sua
solitudine, dicendo che «gli viene da ridere», visto che ha tanti amici. Perché
questo ridere? Come
capire il dolore umano, senza solitudine? Cosa resta, se non l’ammirazione
della forza (la forza
numerica dei lefebvriani, evocata nella lettera del 12 marzo) e l’oblio di chi,
impotente, incorre
nell’anatema come il padre di Eluana, la madre della bambina brasiliana, i
malati che si difendono
come possono dall’Aids?
Per questo quel che vive il Papa è prova e occasione. Prova per chi tuttora
paventa gli
aggiornamenti giovannei, e sembra voler affrettare la fine della Chiesa per
rifarne una più pura.
Prova per chi difende il Concilio come rottura e riscoperta di antichissima
tradizione. La tradizione
del rinascere dall’alto, dello spirito che soffia dove vuole: vicino a chi crede
nei modi più diversi.
Barbara Spinelli La Stampa 22 marzo 2009