Il silenzio, dono di dio

Ratzinger difende Pio XII e lo vuole beato. Ma papa Pacelli rimase muto di fronte allo sterminio degli ebrei

 Torna, ritorna e intigna - il Vaticano - sulla figura di papa Pacelli. E' come un'ossessione. Un fantasma mai rimosso. Un incubo ricorrente, di quelli che non ti fanno più dormire. Così che agli imbarazzanti silenzi sulla Shoà e sulla mancata difesa degli ebrei durante la persecuzione razziale nazifascista - silenzi che il pontificato di Pio XII hanno pesantemente segnato - continuano a sovrapporsi fragori mediatici e similstoriografici altrettanto imbarazzanti. Tutti rigorosamente firmati Santa Sede.
«Basta polemiche - ha dichiarato, ieri, Joseph Ratzinger - Pio XII fu un bene di dio e il suo fu un grande pontificato».
Oppure, che è lo stesso, basta chiacchiere: «Negli ultimi anni, quando si è parlato di Pio XII, l'attenzione si è concentrata in modo eccessivo su una sola problematica, trattata per di più in maniera piuttosto unilaterale».
Una sola, «semplice» e reticente problematica: quella sulla Shoà, sullo sterminio del popolo ebraico, sulla connivenza tra la Chiesa cattolica e gli apparati di regime all'indomani dell'emanazione delle leggi razziali.
Ultimo atto di una polemica, quello di ieri, che solo il 18 ottobre scorso aveva fatto dichiarare a papa Ratzinger - per il tramite di Peter Gumpel, postulatore della causa di beatificazione di Pio XII - che mai si sarebbe recato in Israele sino a che la targa «dedicata» a papa Pacelli nel museo dell'Olocausto di Yad Vashem non fosse stata rimossa. Più che una targa, una pietra tombale: «Eletto nel 1939, il papa mise da parte una lettera contro l'antisemitismo e il razzismo preparata dal suo predecessore. E anche quando i resoconti sulle stragi degli ebrei raggiunsero il Vaticano non reagì con proteste scritte o verbali. Nel 1942 non si asssociò alla condanna espressa dagli Alleati per l'uccisione degli ebrei e quando questi vennero deportati da Roma ad Auschwitz non intervenne».
La verità è che una cosa è parlare di Pio XII altra è parlare di Eugenio Pacelli. Il primo, sicuramente, fu figura di «straordinario spessore storico-teologico» e il suo magistero può sicuramente considerarsi alla base del Concilio Vaticano II. Il secondo fu, essenzialmente, un personaggio politico. Due anime che malamente riuscivano a convivere tanto che, come ha scritto di recente la storica Emma Fattorini, la critica migliore che gli si possa rivolgere non è certo il fatto di essere stato filotedesco o antisemita, cosa perlatro non vera, quanto piuttosto di aver dato spazio a una visione esclusivamente diplomatica del suo pontificato: «Pio XII non riuscì mai a tradurre il suo slancio, la sua profonda aderenza alla realtà tragica di quel periodo, in agire politico suo. In altre parole non seppe tradurre questa dimensione spirituale in una risposta politica».
Giustizialisti o colpevolisti da storici e storiografi poco sono graditi. Meglio restare ai nudi fatti e alle tappe di una vita non sempre trasparente. Dal 1938, data in cui vennero introdotte in Italia le leggi razziali che mai riuscirono a far vacillare il Concordato tra Vaticano e Mussolini (certo, sul soglio sedeva ancora Pio XI) alle mancate condanne di criminali di guerra come monsignor Tiso, ex arcivescovo di Bratislava, in Slovacchia o di Ante Pavelic. E, ancora, al sostegno dato, in Croazia e sino alla fine, al regime ustascia (giova ricordare che è nel convento francescano di Kaptol a Zagabria che è stato scoperto, nel 1946, il «tesoro ustascia»: gioielli, oro, denti in oro su mandibole intere, anelli su dita tagliate. Tutto proveniente dal saccheggio, preliminare al massacro, di ebrei e serbi ortodossi). Per non parlare delle dichiarazioni di Pio XII sulla rivoluzione russa definita un complotto giudaico massonico e al favore con cui salutò l'operazione Barbarossa, l'aggressione nazista contro l'Unione sovietica il 21 giugno del 1941. Sempre zitto il papa non è stato.
O, ancora, al dossier studiato dallo storico Saul Friedlander, in cui si legge come la curia fosse stata informata da fonti ebraiche americane (Myron Tayler, rappresentante di Roosevelt presso il papa) e tedesche sullo stato particolareggiato degli stermini in Polonia il 26 settembre 1942.
E' qui che il silenzio calò; lo stesso che il papa oppose a americani e inglesi quando, dal luglio all'ottobre del '42, gli sollecitarono una protesta pubblica contro le atrocità naziste.
«Io credo - è il commento di Amos Luzzatto, ex presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane - che siamo lontani dall'aver capito fino in fondo non la teologia ma la politica che ha caratterizzato la Santa Sede nei confronti dei regimi di quegli anni, cosa l'ha ispirata. Non c'è dubbio che se il Vaticano avesse fatto, dopo il '42 quando cioè la soluzione finale era già nota, una dichiarazione con cui raccomandava ai governi interessati di bloccare lo sterminio, beh, sono convinti che i cattolici austriaci, polacchi, bavaresi almeno un minore entusiasmo nel collaborare al massacro degli ebrei, lo avrebbero manifestato. E se non altro le vittime avrebbero sentito che non erano state ripudiate dal genere umano».
Intanto la Santa Sede, il Grande Rabbinato di Israele e le principali organizzazioni ebraiche mondiali, pur divisi sul giudizio da dare al pontificato di Pio XII, si incontreranno oggi a Budapest per mettere a punto una strategia comune contro la rinascita dell'antisemitismo e della xenofobia nell'Est Europa.
Che avrebbe detto - o taciuto - Eugenio Pacelli?

Iaia Vantaggiato    Il manifesto 9  novembre 2008