Sicurezza e lavavetri, un brillante progetto di civiltà
L'amore eccessivo per l'ordine costituito spinge talvolta
inavvertitamente a illuminarne la miseria. E' quanto è accaduto recentemente a
Gad Lerner in un articolo su La Repubblica, dedicato a sostenere
appassionatamente la crociata della giunta fiorentina contro i lavavetri. Con
involontario effetto comico, il noto giornalista scriveva: «cancellare la
presenza delle vite derelitte in mezzo a noi non è possibile, ma ripristinare
dignità e legalità agli incroci cittadini è doveroso». Non c'è che dire,
un'impresa di portata storica, un vero progetto di civiltà. Se ci fossimo
spremuti le meningi per riassumere in una formula vivida e sintetica la miseria
della politica contemporanea, difficilmente avremmo conseguito un risultato così
brillante. Riuscire cioè a spiegare in poche chiare parole come l'ossessione
della sicurezza, che accomuna destra e sinistra, sia il frutto di un'impotenza,
l'arroganza che riempie il vuoto, l'ultimo miserabile terreno sul quale lo
«stato minimo» e la minima politica che lo amministra autocertificano la propria
esistenza in vita.
Ma, a sua volta, la sicurezza, chiamata a colmare il vuoto della politica, deve
essere svuotata, ridotta a puro e semplice ordine pubblico, a repressione della
microcriminalità e dei molteplici fastidi che infestano la vita metropolitana.
Solo attraverso questo processo di scarnificazione estrema il discorso della
sicurezza potrà diventare quella cosa «né di destra, né di sinistra» incaricata
di conquistare i cuori e le menti della maggioranza moderata, corteggiata con
appassionato zelo da sindaci e segretari di partito. Infatti, non appena ci si
azzardasse a sostanziare la sicurezza dei cittadini con quell'insieme di diritti
e garanzie, di servizi e certezza di prospettive che ne determinano il senso,
ecco che l'incanto si infrangerebbe d'un colpo e della sicurezza fiorirebbero
versioni di destra e di sinistra, garantiste o antigarantiste, solidali o
competitive, laiche o subordinate alla morale ecclesiastica, fondate
sull'arbitrio del potere o sulla sua limitazione.
Nel paese della tolleranza zero
Lasciamo pure da parte quell'ambiziosa idea di sicurezza che include il lavoro,
il reddito, la salute, l'efficienza dei servizi, la previdenza per limitarci
solamente alla libertà e incolumità personale. Forse un esempio, immaginario, ma
del tutto realistico, può mettere più chiaramente in luce quali minacce possiamo
attenderci dai nostri protettori. Passeggiate per un giardino pubblico e vi
imbattete in un bambino che piange non riuscendo a scendere dall'albero su cui
si è arrampicato. Lo prendete in braccio per aiutarlo a scendere. Per vostra
disgrazia avete anche dei tratti somatici vagamente gitani. Sopraggiungono i
genitori del bambino (iscritti al Moige) e vi si avventano addosso gridando al
pedofilo. Accorrono altri genitori, per metà lettori di Libero, per l'altra metà
di Repubblica. Rischiate il linciaggio. Le forze dell'ordine vi salvano la
pelle, ma non vi trattano con i guanti. Anche loro odiano i pedofili e i
rapitori di pargoletti, di cui sanno essere infestato il mondo. E il non essere
malmenati dalla polizia non rientra nel pacchetto sicurezza, tant'è che dalle
caserme non si esce sempre con le ossa sane. Vi aspetta, a questo punto, carcere
preventivo prolungato e inasprito e gogna mediatica. Inoltre avrete contribuito
a alimentare l'emergenza pedofilia e dunque a facilitare il fatto che a qualcun
altro tocchi in sorte la vostra stessa disavventura. Avrete nutrito la retorica
dei leader politici e incarognito gli umori della «maggioranza rumorosa». State
vivendo nel paese della sicurezza e della «tolleranza zero» dove nulla resta
impunito. Ma il cittadino moderato pensa che niente di tutto questo possa
accadergli (sono faccende che riguardano le «classi pericolose») o, più
saggiamente, il bambino sull'albero ce lo lascia. Che ci pensino i pompieri.
Tuttavia, alla politica non basta mascherare il vuoto e l'impotenza, digrignando
i denti e mostrando i muscoli. Deve anche assolversi da ogni colpa. E qui
subentra il rifiuto di quella «sociologia d'accatto» che vanamente ricercava
negli squilibri sociali e nei dispositivi dell'esclusione le radici del crimine.
Il motto che accompagna questo rifiuto è il seguente : «non è la società a
essere responsabile del crimine, sono i criminali a essere responsabili del
crimine». Il principio si afferma dapprima in ambiente protestante e puritano
(negli Stati uniti) per poi dilagare in Europa. Non è un caso che qualche
resistenza la incontri proprio nel mondo cattolico, che non disdegna
l'irrigidimento delle regole morali, ma non condivide la dottrina della
predestinazione.
Il circolo dell'impotenza
Ma quando si dice società si intende politica. Dunque alla responsabilità dei
singoli, per così dire, votati al male sta di contro una società (e dunque una
politica) irresponsabile. Questa presunzione di irresponsabilità è già tutta
contenuta nell'aspirazione della politica contemporanea, non solo a assecondare,
ma financo a imitare il mercato nelle sue regole e nei suoi dispositivi. E il
mercato è, per definizione, irresponsabile. Il successo o il fallimento sono
determinati esclusivamente dalla capacità o dall'incapacità del singolo. Chi
soccombe è colpevole. La borsa, così come i lugubri spazi di una periferia
metropolitana sono un terreno neutro, uno sfondo «naturale» in cui si cimentano
il vizio e la virtù, l'operosità e l'accidia, la normalità e la devianza. E così
la politica si assolve dei suoi errori e delle sue colpe. Paradossalmente,
tuttavia, la società scomparsa tra le cause del crimine, ricompare tra le sue
vittime. Il singolo malvagio determina infatti un «danno sociale». E dunque
ricompare anche la responsabilità della politica, ma sotto la forma semplificata
della repressione. Il circolo dell'impotenza come meccanismo di riproduzione del
potere, dell'irresponsabilità come legittimazione della responsabilità di
governo si chiude alla perfezione.
Ma poiché nelle società democratiche contemporanee, l'esercizio della forza si
legittima solo come difesa (ancorché «preventiva» e dunque non di rado
arbitraria) è necessario moltiplicare a dismisura le minacce e i «soggetti
minacciosi». Agli scippatori e ai topi di appartamento si aggiungono così
prostitute e venditori ambulanti, lavavetri e parcheggiatori abusivi, mendicanti
e nottambuli, «drogati» e writers, zingari e vagabondi d'ogni genere. Tutte
queste figure, talvolta moleste, vengono rese perseguibili attraverso una selva
di regolamenti, divieti, prescrizioni che vanno progressivamente mutando la
sfera e l'idea stessa della «legalità». Da delimitazione giuridica del crimine a
prescrizione di una condotta «virtuosa», a imposizione di un modo di vita
«normale». Questo slittamento è reso ancora più esplicito dall'accostamento,
ormai quasi automatico tra «legalità» e «decoro». Laddove il secondo termine
designa appunto un modello comportamentale prescritto, un'etichetta della
cittadinanza. Non è un caso che l'accanimento dei sindaci sull'ampliamento degli
strumenti repressivi estesi alle questioni del «decoro» incontri l'opposizione
della magistratura che coltiva, pur sempre, un'idea più razionale della legalità
e tiene ben distinti i due piani. Ma se anche ci attenessimo al significato
puramente estetico del termine, converrà sottolineare che nessun writer è mai
riuscito a eguagliare i bottegai di Firenze nel determinare il degrado ormai
irrimediabile del centro storico.
La nefasta utopia di una vita sociale priva di conflitti e perfino di attriti
comporta una sempre più dettagliata normazione dei comportamenti, una
iperregolamentazione della vita quotidiana, la trasformazione della concezione
della legalità in una sorta di galateo della cittadinanza, ritagliato sugli
umori, ampiamente manipolati, di una presunta maggioranza moderata. Oltre,
beninteso, alla salvaguardia dei diritti proprietari che hanno occupato spazi e
beni comuni e imposto regole che uccidono la libertà d'impresa a favore di
monopoli e potentati corporativi.
Il discorso sulla sicurezza oggi prevalente, nel governo di centrosinistra così
come nelle amministrazioni locali, risponde pienamente a questa logica e lo fa
con una rozzezza e un accanimento sconcertanti. Alla fine gli si opporrà forse
solo qualche spirito liberale vecchia maniera. Ma se questa resterà la rotta del
governo, e l'ideologia del ministro degli interni, seguirle diverrebbe del tutto
insostenibile.
Marco Bascetta Il manifesto 15/09/07