Siamo tutti
emigranti
Una bella mattina di giugno del 1907, a bordo del transatlantico Kaiser Wilhelm,
Alfred Stieglitz
scatta la sua foto più famosa, ammirata perfino da Picasso: sul ponte di terza
classe, un'umanità
malvestita attende paziente la fine del viaggio. The Steerage è ancora
oggi, per il pubblico di massa,
e ahimè anche per molti storici della fotografia, l'icona della grande
migrazione negli Usa a cavallo
del '900. C'è un problema, però: quella nave va in direzione sbagliata. Fa rotta
verso l'Europa,
precisamente Brema, Germania. L'autore stesso ce ne informa: ma pochi ne tengono
conto. Lo
stereotipo è più potente: gli emigranti partono soltanto, non tornano mai. E
invece sì, tornarono, in
tanti. Tra il 1861 e il 1941 uscirono dai patri confini venti milioni di
italiani: ma alla fine dei conti i
rientri furono più degli espatri permanenti. Più che una strada a senso unico,
la rotta di quei
bastimenti pieni di speranze somiglia a un circuito.
Incrostata da troppi luoghi comuni, la storia delle
migrazioni italiane è ampiamente da riscrivere.
Forse perché una tradizione storiografica specialistica sui grandi movimenti di
popoli nell'era
moderna in realtà non esiste: la pubblicistica esplosa negli ultimi anni, sotto
l'impatto emotivo delle
"carrette del mare", è cresciuta su un vuoto analitico di oltre due secoli. Gli
emigranti, in fondo,
sono apolidi anche in questo: lo storico del paese d'origine ha sempre pensato
che a occuparsene
dovesse essere il collega del paese di destinazione, e viceversa. A occuparsene,
alla fine, sono stati
solo i romanzi, la memorialistica, le tradizioni orali, qualche fotografo con
coscienza. Intonsa dal
bisturi critico dello storico, la memoria della nostra emigrazione è fondata
ancora sull'oleografia
sentimental-miserabilista da Mamma mia dammi cento lire. A cui hanno dovuto
ricorrere anche i
benintenzionati che di recente hanno tentato di contrapporre al "cattivismo"
xenofobo dei
governanti la storia speculare dei nostri "clandestini" di un secolo fa. Col
risultato involontario di
produrre un nuovo stereotipo, solidale ma incompleto: prima i poveracci
con la valigia di cartone
eravamo noi, adesso i poveracci sono loro. Invece no: la valigia, magari più
robusta e alla moda, noi
l'abbiamo ancora, e loro l'hanno sempre avuta. La mappa delle migrazioni
non è un senso unico
alternato, è fatta a rete: nel tempo, magari, certe maglie si stringono e altre
s'allargano, ma la trama
non si rompe mai, e vibra in tutte le direzioni. Al punto che l'Annale numero 24
della Storia d'Italia
Einaudi, dedicato appunto alle Migrazioni e curato da Paola Corti e Matteo
Sanfilippo (803 pagine,
95 euro), parte negando alla radice la distinzione classica tra popoli sedentari
e popoli nomadi, e fa
conflagrare deliberatamente i concetti di emigrazione e immigrazione in quello
di mobilità di tempo
lungo che, se non riuscirà ad attenuare certi sciovinismi attuali, almeno può
togliere loro molti
pretesti.
Lanciata come un molo nel Mediterraneo, la Penisola è
luogo di movimenti umani per vocazione, si
sa anche senza aver letto Braudel. Ma quanto e come, questo dettagliato
sguardo d'insieme
finalmente ce lo fa apprezzare in pieno. I nostri confini sono sempre stati
attraversati
simultaneamente in entrata e in uscita. Migrazioni più che invasioni furono
quelle di Goti,
Longobardi e Normanni; ma anche le dominazioni angioine o aragonesi produssero
andirivieni di
gruppi, con relativi problemi e conflitti di integrazione. Tratta di schiavi,
fuga individuale e
collettiva di esuli politici o di eretici religiosi, trapianti di comunità
artigiane, accoglienze o
ostracismi etnici (ebrei, rom): la bilancia degli arrivi e delle partenze
bascula nei secoli per grandi e
piccoli pesi, ma nulla ha mai potuto arrestarne il movimento. Uniche
strategie: tentare di dare
misura, ritmo, regola. L'accoglienza dello straniero è stata una faticosa,
perenne negoziazione
esplosa a volte in violenza e pogrom, ma altre volte foriera di integrazione e
strutture: nei fondachi
delle città marinare maturò la prima globalizzazione, e la parola forestiero
nacque per indicare lo
straniero che ha acquisito il diritto al rispetto nella terra di trapianto.
Del resto, il concetto di clandestino debutta solo con gli stati nazionali, cioè
molto tardi. È la labilità
storica delle "identità di carta" che da secoli produce i sans-papiers:
chi si muove non sente di
abbandonare una nazionalità, ma una piccola comunità di uomini e cose (un
dialetto, un paesaggio,
una cucina). Il siciliano è tanto straniero a Milano quanto a Berna o a Chicago.
Clandestini sono le
migliaia di emigranti italiani (25 mila all'anno nella Francia degli anni Venti:
da far impallidire le
odierne polemiche su Lampedusa) che perfino negli anni in cui l'emigrazione è
incoraggiata (come
strumento di quel "colonialismo da poveri" che la retorica fascista trasformerà
nella retorica del
"genio italico nel mondo") varcano le frontiere senza quei documenti che per
loro sono imposizioni
burocratiche di uno Stato astratto. Per loro conta solo quella ricerca di vita
migliore che era dei
nostri nonni e che rivediamo quasi identica nelle colorate famiglie del
pianerottolo accanto. Progetti
esistenziali che includono la possibilità del ritorno, che non tagliano mai
integralmente i ponti:
famiglie "transnazionali" che mantengono saldissimi legami a cavallo di migliaia
di chilometri
erano anche quelle dei 'mericani nostri, leggere le loro lettere per credere.
Chi pensa che oggi noi siamo diventati i sedentari (dunque
titolari di un escludente ius loci) e solo
loro siano i nomadi, non sa vedere che i bastimenti partono ancora. Si chiamano
magari treni ad alta
velocità. Non solo la precarietà del lavoro, ma anche la facilità dei
collegamenti mascherano da
pendolarismo la nuova emigrazione interna, che oggi è meglio chiamare "mobilità
senza
sradicamento": chi negli anni Sessanta era obbligato a cambiar casa per
inseguire un salario, oggi
può tenere separati (ma uniti da poche ore di viaggio) residenza e lavoro, e
così non finisce nelle
statistiche migratorie. In cerca di habitat migliori o più economici
emigriamo negli hinterland, a
caccia di una carriera piantiamo la tenda in una città dopo l'altra. Mentre le
partenze dei nostri figli
laureati per lunghi master all'estero, che magari diventano lavoro, sono
meno strazianti di certi
episodi del libro Cuore, ma numericamente non indifferenti.
Insomma, ci muoviamo tutti. "Siamo tutti migranti" non è uno slogan da corteo
dei centri sociali, è
una realtà sociologica. A cui i poteri fanno resistenza, perché può mettere
in crisi un valore-scudo,
forse l'ultimo baluardo del comunitarismo egoista: il diritto di
cittadinanza. Non a caso l'Annale si
chiude sulla storia tormentata di questo concetto giuridico scivoloso e
contraddittorio: sono cittadini
italiani persone che l'Italia non l'hanno mai vista (gli eredi degli emigrati),
ma faticano a diventarlo
persone che in Italia lavorano e pagano tasse da lustri.
Michele Smargiassi la Repubblica
28 agosto 2009