"Quando nel '39 fu eletto Papa, Pio XII nascose una lettera contro il razzismo e l'antisemitismo preparata dal suo predecessore...". Sono bastate queste e altre parole di un pannello che non ha nulla di offensivo, e che cerca di fornire nel modo più breve ed essenziale alcune incontrovertibili verità storiche sul silenzio di Pio XII durante il secondo conflitto mondiale, per spingere il nunzio apostolico Monsignor Antonio Franco a disertare la cerimonia prevista per il 15 aprile al Museo di Yad Vashem.
Il pannello incriminato è stato preparato da studiosi seri che da decenni si occupano della tragedia della Shoah dedicando gran parte del loro tempo a scoprire, nella vasta zona grigia delle complicità omicide dell'Europa occupata dai nazisti, i giusti che seppero distinguersi a rischio della vita propria e dei propri cari. Fra i giusti ci sono uomini semplici di ogni credo politico e religioso. Fra i giusti delle nazioni ci sono laici, protestanti, cattolici e anche mussulmani. Ci sono anche dei sacerdoti cattolici (tre mila sono stati internati nei lager) che Israele ricorda e celebra come esempio di umanità e di fratellanza.
Non è qui in discussione l'aiuto generoso fornito dai conventi aperti a chi era braccato, anche se talvolta vi era la richiesta del battesimo per bambini. Né è in discussione l'equiparazione tra l'operato di Pio XII e i veri aguzzini. È in gioco il diritto-dovere di chiamare le cose per nome, perché è solo a partire dalla verità che è possibile far progredire il rapporto di amicizia tra fedi e tra popoli. E nel rapporto tra la Chiesa e gli Ebrei il silenzio del pontefice non è un elemento qualsiasi, su cui si può tacere, ma un nodo imprescindibile da cui discendono tutta una serie di conseguenze politiche, etiche e religiose anche per il futuro (basti pensare alle implicazioni che assumerebbe la beatificazione di Pio XII).
Di fronte alla reazione del nunzio, viene da chiedersi come dovrebbero allora reagire gli altri ambasciatori delle potenze alleate che il nazismo lo combatterono per davvero, pagando un alto tributo di sangue e distruzione. Dovrebbe forse l'ambasciatore americano disertare la cerimonia perché i pannelli del Yad Vashem giustamente ricordano che l'aviazione alleata si rifiutò di colpire le strade ferrate che portavano ad Auschwitz? E l'ambasciatore di Londra dovrebbe forse protestare se il panello ricorda che le autorità britanniche chiusero le porte all'unico luogo al mondo dove gli ebrei potessero trovare un rifugio, perché non vi era nessun altro luogo sul pianeta dove potessero fuggire? Che dire poi dell'aiuto attivo dato da settori della Chiesa alla fuga dei nazisti verso il Sud America dopo la seconda guerra mondiale?
La solitudine ebraica durante il secondo conflitto mondiale fu estrema. Nel
'33 quando Hitler non aveva ancora lanciato il suo attacco contro l'intero mondo
civile, il futuro papa, allora segretario di Stato, fu attivo nel sostenere e
ottenere un concordato con il regime nazista. L'obiettivo primario della Chiesa
era di preservare i suoi diritti in Germania, come era stato fatto cinque anni
prima con il regime fascista. Di fronte alla paura del bolscevismo la Chiesa
considerava Hitler come il "male minore" con cui scendere a patti come era stato
fatto prima col fascismo. Da qui l'abbandono totale degli ebrei al loro destino,
con la conseguente rinuncia ad un'azione politica di opposizione aperta e
conseguente che nel '38 si tradusse in Italia nella richiesta di esenzione dalla
legislazione discriminatoria e violentemente vessatoria (espulsione dalle
scuole, dal lavoro e dalle professioni etc) solo per gli ebrei che risultavano
battezzati prima di tali leggi.
A Roma il 16 ottobre del 1943 i nazisti razziarono il quartiere ebraico e
deportarono oltre due mila persone che furono raccolte a qualche decina di metri
dalle finestre di San Pietro. Per saggiare la reazione della Santa Sede, i
nazisti attesero ben tre giorni prima di far partire i treni merci carichi di
vittime doloranti. La reazione temuta dai nazisti non ci fu. Gli ebrei furono
deportati e gassati al loro arrivo.
Le responsabilità delle Chiese cristiane nella tragedia ebraica hanno un'origine più antica: nella costruzione dell'immagine demoniaca dell'ebreo, nell'insegnamento del disprezzo che per secoli è stato riservato al giudaismo, nella chiusura nei ghetti, nei roghi dell'inquisizione, e nel rifiuto virulento all'emancipazione seguita agli editti posteriori alla rivoluzione francese. Nella teologia cristiana preconciliare gli ebrei potevano salvarsi col battesimo. Col razzismo nemmeno questo sarebbe stato più possibile. La "colpa originaria" non poteva essere cancellata, nemmeno con la morte fisica. Oltre agli ebrei, il nazismo si proponeva di cancellare ogni forma di memoria ebraica e di vestigia che si richiamasse all'insegnamento ebraico. Nel deliro antisemita, democrazia e socialismo, liberalismo e comunismo e lo stesso cristianesimo erano sinonimo di corruzione ebraica.
Dopo la vittoria sul nazismo trascorsero altri anni prima che dalla liturgia cattolica fosse tolto il riferimento ai "perfidi giudei". Il Vescovo Ablondi, amico dei Toaff, si recò di persona sino alla soglia della Sinagoga per testimoniare la sua vicinanza alla comunità ebraica locale dopo la scomparsa del Rabbino Alfredo Toaff. Nonostante l'affettuoso invito, non entrò nella Sinagoga perché non era lecito per la Chiesa. Quando Paolo VI visitò lo Stato di Israele, girò in lungo e in largo il paese, ignorandone l'esistenza e senza mai nominarlo. Ci vollero altri decenni prima che un pontefice mettesse piede nei luoghi dove Pietro e i primi apostoli avevano più volte pregato. Dopo la visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma, bisogno attendere l'anno del Giubileo perché lo stesso pontefice si recasse al Yad Vashem e al Muro Occidentale per pregare.
Gli ebrei hanno dovuto attendere due millenni perché la Chiesa togliesse dal
suo insegnamento la più delirante delle accuse umane: avere ucciso Dio. Sono
morti un milione di bambini perché‚ un'intera tradizione culturale entrasse in
contatto col suo proprio delirio (il pastore evangelico Pfister, amico e allievo
di Freud, non esitò a parlare di un "malattia storica" del cristianesimo).
Lo Stato di Israele ne ha dovuti attendere altri quaranta perché la Chiesa
superasse le resistenze teologiche residue giustificate col timore di esporre i
cristiani d'Oriente a pericolosi contraccolpi per opera del nazionalismo arabo.
A rompere gli ultimi indugi non sono state le grandi questioni etiche, ma la
paura di essere esclusi dalle trattative di Madrid per essersi trovati dalla
parte sbagliata durante la prima guerra del Golfo.
L'augurio che formulo con amicizia fraterna all'intero mondo della Chiesa è di
non far passare altrettanti anni per completare il percorso residuo di un lutto
che coinvolge la storia e la prassi, la fede e la teologia.
David Meghnagi*, Aprile online 13 aprile 2007
*Prof. di psicologia clinica all'Università degli studi Roma Tre, dove dirige il Master internazionale in didattica della Shoah; Full member dell'International Psychoanalytical Association (IPA); membro ordinario della Società psicoanalitica italiana (SPI); già vicepresidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane