Sembra un dibattito surreale, invece è tutto vero
C'è qualcosa di surreale nell’idea stessa di prendere partito dalla moratoria
sulla pena di morte approvata dall’assemblea delle Nazioni Unite per mettere
mano a una mobilitazione internazionale in favore di una moratoria sull’aborto.
Ma c’è qualcosa di peggio, qualcosa di profondamente malato, in un Paese in cui
si fa leva su una simile pensata per riaccendere la discussione sull’opportunità
di rivedere una legge, la 194, approvata dal Parlamento, confermata da un
referendum popolare, da molti, anche fuori d’Italia, considerata come un modello
di saggezza e di equilibrio. Anche i modelli, ci mancherebbe, possono, anzi,
debbono essere analizzati criticamente, rivisitati, adeguati ai tempi; e si può
discutere pure su quanto e come siano stati effettivamente messi in pratica. Non
saremo certo noi a sottrarci a un confronto di questo tipo. Ma non siamo neanche
così sprovveduti da credere che oggi diete natalizie, appelli cardinalizi,
iniziative parlamentari più o meno trasversali servano a indurci a ragionare
pacatamente su come applicare meglio la legge. Perché è proprio la 194 per
quello che ha significato e per quello che significa, in primo luogo per le
donne, ad essere pesantemente chiamata in causa. E quindi è la 194 per quello
che ha significato e per quello che significa, in primo luogo per le donne, ma
più in generale per la nostra idea di società, che noi difenderemo e chiameremo
a difendere. Senza se e senza ma. Pronti a confrontarci su tutto con tutti. Ma
solo dopo aver rintuzzato l’attacco.
Qui non si sta parlando solo di aborto, così come ieri non si parlava soltanto
di fecondazione e domani, se non riusciremo a invertire la china, non si parlerà
soltanto di divorzio. Si parla (si dovrebbe parlare) dei princìpi costitutivi
della nostra società, delle forme e dei caratteri della nostra convivenza: la
Costituzione di cui celebriamo il sessantesimo anniversario in materia ci dice
molto, non tutto. Questi princìpi, queste forme e questi caratteri, ne siamo
assolutamente convinti, vanno (in parte) ridefiniti insieme da laici e
cattolici, anche se noi preferiremmo poter dire: da credenti e non credenti. Ma
perché questo confronto e questa intesa siano possibili c’è una condizione
imprescindibile, senza rispettare la quale nessun dialogo, o almeno nessun
dialogo tra pari, è immaginabile. La condizione è che nessuno si consideri
portatore di verità assolute, di valori non negoziabili e, di conseguenza, di
diritti di veto (e di diritti di revanche) inalienabili; e che tutti siano
gelosissimi custodi dei propri diritti e delle proprie convinzioni, ma nello
stesso tempo rifuggano dalla tentazione di imporle con le buone o con le cattive
a quella porzione, grande o piccola che sia, del proprio prossimo che ha altri
diritti e altre convinzioni da salvaguardare. Per dirla in sintesi estrema,
viene difficile pensare che a incorrere in una simile tentazione siano i laici.
Ovvietà? Mica tanto, se è vero, come è vero, che sono così in pochi a ricordarle
e a pronunciarle ad alta voce, tra un dibattito e l’altro sul crescente ruolo
delle religioni nello spazio pubblico. Mica tanto, se attorno a questi temi si
aggroviglia a dismisura la fase costituente del nascente Partito democratico.
Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere, coglie lucidamente, dal suo punto di
vista, un aspetto cruciale del problema. Di qua un mondo “progressista” che
pochissimo ha da spartire con gli antichi ideali della sinistra, e invece
inalbera per unici vessilli la “modernità” e quella “laicità” che le è sorella.
Di là un mondo cattolico «che ha preso a identificarsi con una critica sempre
più approfondita e combattiva verso la medesima “modernità”, o perlomeno verso
la sua vulgata più facile e diffusa». Come immaginare, in un simile contesto, di
rinverdire i fasti dell’antico dialogo tra il Pci e i cattolici, oltre tutto
nello stesso, costituendo partito? Fatichiamo a immaginarlo anche noi, e
restiamo in attesa di qualche delucidazione più convincente di quelle sentite
sinora. C’è molto da discutere, dentro e fuori il Pd, sui rapporti con i
cattolici e con la Chiesa ma pure sull’idea di sinistra: noi non riusciamo a
pensarne una che stia nella “modernità” senza esercitare, dal governo come
dall’opposizione, un suo punto di vista critico. Benissimo, discutiamo: almeno
non correremo il rischio di morire di noia. Ma ricordandoci bene che, senza
ottemperare tutti alla banalissima e liberalissima condizione sopra descritta,
il dialogo non andrebbe da nessuna parte. La libertà è sempre la libertà di chi
la pensa diversamente. Laico o cattolico che sia.
Paolo Franchi il Riformista 3.1.08