Per questa grave vergogna nazionale andate alla pagina delle petizioni per leggere la PETIZIONE 27 e 28
Se voi foste
persone normali
Se foste un rom, quella di Salvini non vi apparirebbe come la sortita delirante
di un imbecille da
ridicolizzare. Se foste un musulmano, o un africano, o comunque un uomo dalla
pelle scura, il
pacchetto sicurezza non lo prendereste solo come l’ennesima sortita di un
governo populista e
conservatore, eccessiva ma tutto sommato veniale. Se foste un lavoratore che
guadagna il pane per
sé e per i suoi figli su un’impalcatura, l’annacquamento delle leggi sulla
sicurezza nei luoghi di
lavoro non lo dimentichereste il giorno dopo per occuparvi di altro. Se foste
migrante, il rinvio
verso la condanna a morte, la fame o la schiavitù, non provocherebbe solo il
sussulto di
un’indignazione passeggera. Se foste ebreo sul serio, un politico xenofobo,
razzista e malvagio fino
alla ferocia non vi sembrerebbe qualcuno da lusingare solo perché si dichiara
amico di Israele. Se
foste un politico che ritiene il proprio impegno un servizio ai cittadini,
fareste un’opposizione senza
quartiere ad un governo autoritario, xenofobo, razzista, vigliacco e malvagio.
Se foste un uomo di
sinistra, di qualsiasi sinistra, non vi balocchereste con questioni di lana
caprina od orgogli identitari
di natura narcisistica e vi dedichereste anima e corpo a combattere le
ingiustizie. Se foste veri
cristiani, rifiutereste di vedere rappresentati i valori della famiglia da
notori puttanieri
pluridivorziati ingozzati e corrotti dalla peggior ipocrisia. Se foste italiani
decenti, rifiutereste di
vedere il vostro bel paese avvitarsi intorno al priapismo mentale impotente di
un omino ridicolo
gasato da un ego ipertrofico. Se foste padri, madri, nonne e nonni che
hanno cura per la vita dei loro
figli e nipoti, non vendereste il loro futuro in cambio dei trenta denari di
promesse virtuali.
Se foste esseri umani degni di questo nome, avreste vergogna di tutto questo
schifo.
Moni Ovadia l'Unità 9 maggio 2009
«I migranti fuggono da condizioni gravi e inumane»
Il responsabile rifugiati di Human Rights Watch: «Sono stupito dalle
dichiarazioni dei ministri italiani. Hanno rimandato persone in situazioni di
pericolo»
intervista a Bill Frelick di Unberto De Giovannangeli
Un atto d’accusa forte, argomentato. Human Rights Watch critica duramente il
Governo italiano per la decisione di far tornare 227 migranti in Libia. A
spiegare le ragioni di questa denuncia è Bill Frelick, responsabile del settore
rifugiati dell’organizzazione per la difesa dei diritti umani che ha la sua
centrale negli Stati Uniti.
La decisione assunta dal governo italiano di far tornare 227 migranti in Libia
ha sollevato polemiche e denunce. Tra queste, quella di Human Rights Watch. Su
che basi si fonda la vostra posizione?
«Su basi solidissime che fanno riferimento alla Convenzione di Ginevra e a
precise norme del Diritto internazionale in materia di diritti inalienabili
della persona, tra i quali il diritto d’asilo. Sono stupito, amareggiato e
fortemente preoccupato nel leggere le dichiarazioni di ministri del governo
italiano che rivendicano con orgoglio la decisione di rispedire indietro 227
migranti, senza avvertire l’obbligo di accertare prima la loro identità e la
situazione dalla quale fuggivano. L’Italia si è comportata come se avesse fatto
qualcosa di positivo rimandando immediatamente queste persone indietro...».
Invece?
«In realtà, hanno negato a queste persone il diritto di asilo e le hanno
messe in una situazione difficile, di grave pericolo. Sappiamo quanto
duramente la Libia abbia trattato altri migranti rientrati nel Paese. I rapporti
di agenzie internazionali che documentano gli abusi subiti da persone nei campi
di “accoglienza” libici sono di dominio pubblico. Mi chiedo se i governanti
italiani li hanno letti e presi in considerazione. Ne dubito fortemente».
Insisto su questo punto. Il governo di Tripoli nega questi maltrattamenti. Per
averne riferito l’Unità è stata querelata dall’ambasciatore libico a Roma…
«Se vuole, posso metterle a disposizione le testimonianze raccolte da volontari
di Hrw che hanno visitato migranti in Libia, a Malta, ora anche in Sicilia. Sono
testimonianze sconvolgenti che fanno riferimento a maltrattamenti e detenzioni
in condizioni inumane da parte delle autorità libiche. I nostri volontari hanno
visto il terrore negli sguardi di questa povera gente. “Non ci abbandonate”,
ripetevano. “Non ci condannate a morte”. Molte di queste persone hanno storie di
sofferenze indicibili, di abusi. Fuggivano da situazioni di guerra e di
sofferenza. E avevano paura di tornare in quei centri di detenzione. Prima
di rimandare indietro queste persone occorre pensarci non una ma cento volte.
Perché a rischio è la loro stessa vita».
Il governo italiano ribadisce la necessità di garantire il diritto alla
sicurezza.
«Il primo diritto da garantire è quello alla vita. Diritto che viene ogni
giorno messo in discussione da organizzazioni criminali che fanno affari con la
tratta di esseri umani; diritto che viene negato da quei regimi che perseguitano
donne e uomini per la loro appartenenza etnica o per il loro credo religioso.
Questo diritto va difeso e garantito. Operando perché vengano meno le
motivazioni che spingono centinaia di migliaia di persone a fuggire dall’inferno
dei loro Paesi e avventurarsi in mare. Un’avventura comunque tragica. Quest’azione
è il modo più giusto ed efficace per garantire la propria sicurezza. E per
mantenere in vita una cultura dell’accoglienza e del rispetto dei più deboli».
l’Unità 9.5.09
L’asilo negato senza verifiche e l’inferno dei campi libiciTra
Europa e Africa Tripoli non ha mai riconosciuto la Convenzione internazionale
sulle garanzie ai perseguitati politici
Il Consiglio dei rifugiati: a un centinaio spettava il soccorso
Chissà quanti erano, tra quei clandestini ributtati in Libia, ad avere
diritto allo status di rifugiati. Uomini, donne e bambini in fuga da regimi
assassini che forse sono già stati ammassati in un container e stanno ora
viaggiando attraverso il deserto per esser scaricati in mezzo al Sahara.
Bobo Maroni, fiero della scelta, ha detto che se vogliono chiedere asilo possono
farlo lì.
«Anche in Libia c'è un Cir, un centro italiano per i rifugiati, aperto a tutti»,
ha detto il ministro dell’Interno. Sapete quante persone ci lavorano? Una. E
solo da lunedì. E senza mezzi. E senza il riconoscimento di Tripoli. Che del
resto non ha mai riconosciuto manco la Convenzione di Ginevra sui rifugiati.
È chiarissima quella carta ginevrina del 1951. Ha diritto all'asilo chi scappa
per il «giustificato timore d'essere perseguitato per la sua razza, la sua
religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo
sociale o le sue opinioni politiche». Altrettanto netto è l'articolo 10 della
Costituzione: «Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo
esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha
diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite
dalla legge».
Vogliamo
prendere una storia a caso, dall'inferno dei campi libici? Ecco quella di una
donna eritrea, cristiana, nel documentario «Come un uomo sulla terra» di Andrea
Segre: «Ero in prigione con un'amica eritrea incinta, la rabbia le aveva
deformato il viso. Il marito cercava di difenderla perché il poliziotto le
premeva la pancia col bastone dicendole: 'Hai in pancia un ebreo, andate in
Italia e poi in Israele per combattere gli arabi'». Un'altra donna: «Preferivamo
morire piuttosto che doverci togliere la croce al collo. Piangevamo, se questa
era la volontà di Dio l'accettavamo, ma la croce non la volevamo togliere.
Cristiani siamo e cristiani rimarremo. E loro ci sbattevano contro il muro.
Mentre gli uomini venivano picchiati noi urlavamo. Gli uomini venivano frustati
sotto la pianta dei piedi fino a perdere i sensi».
Situazioni agghiaccianti. Denunciate già nel 2004 da una Missione tecnica in
Libia dell'Unione europea, dove si parlava di abusi, arresti arbitrari,
deportazioni collettive... Confermate nel febbraio 2006 dalla deposizione del
prefetto Mario Mori, il direttore del Sisde, in una audizione al Comitato
parlamentare di controllo: «I clandestini vengono accalappiati come cani, messi
su furgoncini pick-up e liberati in centri di accoglienza dove i sorveglianti
per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori
nauseabondi...». La visita al centro di accoglienza di Seba lo aveva turbato:
«Prevede di ospitare cento persone ma ce ne sono 650, una ammassata sull'altra
senza rispetto di alcuna norma igienica e in condizioni terribili».
Per non dire di certe deportazioni nei container blindati come quella raccontata
da Anna («Presto sotto il sole di luglio il container diventò un forno, l'aria
era sempre più pesante, era buio pesto. I bambini piangevano. Due giorni di
viaggio senza niente da bere, né da mangiare. Alcuni bevevano le proprie
urine») in «Fuga da Tripoli / Rapporto sulle condizioni dei migranti in
transito in Libia», a cura dell'Osservatorio sulle vittime delle migrazioni «Fortress
europe». Osservatorio secondo il quale in soli cinque anni «dal 1998 al 2003
più di 14.500 persone sono state abbandonate in mezzo al deserto lungo la
frontiera libica con Niger, Ciad, Sudan ed Egitto. Molti deportati, una volta
abbandonati nel deserto hanno perso la vita».
E per non dire ancora degli stupri, come nella testimonianza di Fatawhit: «Ho
visto molte donne violentate nel centro di detenzione di Kufrah. I poliziotti
entravano nella stanza, prendevano una donna e la violentavano in gruppo davanti
a tutti. Non facevano alcuna distinzione tra donne sposate e donne sole, Molte
di loro sono rimaste incinta e molte di loro sono state obbligate a subire un
aborto, fatto nella clandestinità, mettendo a forte rischio la propria vita».
Forzature? Lasciamo la risposta al comunicato ufficiale del Servizio
Informazione della Chiesa Italiana: «Non possiamo tollerare che le persone
rischino la vita, siano torturate e che l'85 per cento delle donne che arrivano
a Lampedusa siano state violentate». Per questo i vescovi non hanno dubbi:
è «una vergogna» che siano state respinte persone che «hanno già
subito delle persecuzioni nei rispettivi Paesi». Posizione ribadita
dall'Osservatore Romano: «Preoccupa il fatto che fra i migranti possa esserci
chi è nelle condizioni di poter chiedere asilo politico. E si ricorda anzitutto
la priorità del dovere di soccorso nei confronti di chi si trova in gravi
condizioni di bisogno».
Questo è il nodo: la scelta di tenere verso gli immigrati in arrivo una
posizione più o meno dura, compassionevole o «cattiva», come ha teorizzato tempo
fa Maroni, spetta a chi governa. Ed è giusto che sia così. La decisione di «fare
di ogni erba un fascio», rifiutare ogni distinzione e respingere chi arriva
senza neppure concedergli, per dirla coi vescovi, almeno la possibilità di
dimostrare che ha diritto all'asilo, è però un'altra faccenda. Che non solo
rinnega una storia piena di esuli politici (da Dante a Mazzini, da Garibaldi ai
fratelli Rosselli a don Luigi Sturzo) ma, secondo Laura Boldrini e l'Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, fa a pezzi le regole
vigenti poiché «tutti gli obblighi internazionali» e anche la legge italiana
«vietano tassativamente il respingimento di rifugiati o richiedenti asilo».
Quanti erano, su quella barca respinta, quelli che avrebbero avuto diritto ad
essere accolti? Risponde Christopher Hein, Direttore del Cir, il Consiglio
italiano per i rifugiati: «Generalmente tra i disperati che arrivano a Lampedusa
quelli che chiedono diritto d'asilo sono il 70% ma di questi solo la metà
ottiene lo status di rifugiato. Gli egiziani o i maghrebini, per esempio,
difficilmente lo chiedono. Del resto difficilmente lo otterrebbero. Gli stessi
cinesi non lo chiedono mai. Ora, poiché tra i passeggeri di quella nave
riportati in Libia non c'erano maghrebini, egiziani o cinesi, è presumibile che
almeno il 70% avrebbe chiesto asilo. E di questi, con ogni probbilità, la metà
ne aveva diritto. Il che significa che l'Italia ha respinto almeno un
centinaio di persone alle quali la nostra Costituzione garantiva il soccorso».
Non possono farlo adesso? «La vedo dura. In tutta la Libia, dico tutta (non
sappiamo neppure quanti siano i centri libici di detenzione, pare 25) abbiamo
una persona. Che si è insediata da quattro giorni. Senza avere ancora il
riconoscimento delle autorità. Veda un po’ lei...».
Gian Antonio Stella Corriere della Sera 9.5.09