Se scompare la
liberazione
E così scomparirà forse dal vocabolario delle feste nazionali la parola
"Liberazione". A partire dal
25 aprile 2009, da quella che sarà stata (forse) l´ultima Festa della
Liberazione, la sostituirà un´altra
parola, solo in apparenza simile: "Libertà". Un mutamento che sembra del tutto
naturale, di fatto già
avvenuto, come bere un bicchier d´acqua, come trovare la definizione adatta per
riempire le caselle
di un gioco di parole incrociate. Una piccolissima modifica, una roba da niente.
Tanto piccola e
innocua che questo mutamento di fatto è come se fosse già avvenuto. Del resto,
l´accoglienza è stata
benevola, perfino un po´ distratta. Una parola, nient´altro. I pochi,
prevedibili dissensi sanno più di
blando rimpianto per la dipartita di un vecchio amico di famiglia che di lotta
per difendere valori
non negoziabili. Nel consenso si avverte un respiro di sollievo, come quello a
cui dà voce un
editoriale sul Corriere della Sera di ieri. È – vi si legge – «una ferita che si
chiude». C´era dunque
una ferita: la parola "Liberazione" la teneva aperta, la parola "Libertà" la
chiude. Caso singolare,
degno di attenzione. Una parola divideva, di più: feriva e faceva sanguinare,
l´altra – pur della
stessa famiglia – magicamente risana la ferita, ricompone la società, fa
scomparire l´ultimo riflesso
delle passioni da cui era nata. E certo quelle passioni se le portava dietro fin
da quando era nata:
perché erano quelle passioni che l´avevano generata nella mente di una minoranza
di italiani.
Quegli uomini parlavano anche di libertà ma intanto
vedevano l´urgenza di un´azione da compiere,
un´azione liberatoria, «questa cruenta lotta di liberazione» – come
scriveva il 25 settembre del 1945
il partigiano Didimo Ferrari al commissario della Divisione Lunense, l´azionista
e futuro storico
Roberto Battaglia. Ma se libertà e liberazione erano così solidali nella lingua
di allora, che cosa le
ha fatte diventare nemiche nella lingua di oggi? «Il concetto di libertà – ha
scritto Marc Bloch – è
uno di quelli che ogni epoca rimaneggia a suo piacere». Più difficile
rimaneggiare "Liberazione" –
quella specifica e precisa lotta di liberazione che si svolse in un determinato
momento della storia
italiana. Quanti liberatori attivi ebbe l´Italia tra il 1940 e il 1945? C´era
allora il "Consolidated B-24
Liberator": un bombardiere quadrimotore. Lo vedevamo dal basso quando veniva a
bombardare un ´Italia già alleata della Germania e poi occupata dai tedeschi,
dove popolazioni inermi tradite dai rappresentanti dello Stato aspettavano che
qualcuno li liberasse dalla condizione schiavile in cui erano precipitati.
Se qualcuno non si fosse ribellato e non avesse dato vita all´organizzazione
di
Comitati di Liberazione Nazionale, gli italiani avrebbero avuto una liberazione
tutta americana,
insieme alle "AM-Lire" stampate dagli alleati.
Non sarebbe stata la prima volta. Nella storia d´Italia
altre svolte rivoluzionarie del mondo moderno
sono state vissute in modo passivo. Per una di loro, quella della Grande
Rivoluzione francese
esportata dalle armate napoleoniche in tutta Europa, lo storico napoletano
Vincenzo Cuoco coniò il
termine di "rivoluzione passiva", che rimase buono anche per altri usi.
Ma almeno in un caso l´Italia
è stata attiva e creativa: nell´invenzione del regime fascista, guidato da un
capo che si presentò agli
inizi come rivoluzionario. Lo storico che sottolineò questo aspetto,
Renzo De Felice, fu anche colui
che coniò una espressione poi entrata nel linguaggio comune delle narrazioni
della storia italiana del
´900: "gli anni del consenso". Significava quella espressione che l´adesione
degli italiani al regime
fascista era stata un fenomeno di massa. E questo è servito spesso nella
polemica ideologica a
sminuire ancora di più la piccolezza del fenomeno della Resistenza come guerra
di liberazione
condotta da italiani. Poteva mai nascere dal paese del consenso di massa al
fascismo, un altro e
opposto paese capace di lottare per riscattare la propria dignità? Nella
stanchezza di un´Italia
lontanissima da quei tempi oggi sembra giunto il tempo per cancellare anche nel
linguaggio l´ultima
traccia verbale di una stagione lontana. Ma nella parola "Liberazione" e solo in
quella è iscritto il
ricordo di un fatto storico che ha segnato la discontinuità tra due Italie.
Questo termine sta a
ricordare che c´è stata una lotta di una parte del paese contro un´altra, che
quella parte pur
minoritaria seppe allora raccogliere l´esito della fine del consenso al regime e
conquistarsi nel paese
un altro e diverso consenso di massa: quel consenso che, attraverso libere
elezioni e nella dialettica
di ideali diversi ma capaci di dialogare e di incontrarsi sulla sostanza, dette
vita e forma alla
Costituzione repubblicana. Lo si cancelli, se si vuole, se si può. Vediamo bene
che c´è un
patteggiamento intorno a questo e che non mancano offerte di pagamento in buona
moneta: tale è il
ritiro della legge che equipara gli italiani di Salò e quelli dei Comitati di
Liberazione, tale è la
possibilità di una revisione della Costituzione non a colpi di maggioranza.
E il prezzo che si chiede
è solo una piccola operazione di "lifting" verbale. Tuttavia una
cosa deve essere tenuta presente: il
banco di prova più delicato del potere si trova proprio qui, nella capacità di
iscriversi nel
linguaggio, di mutare le denominazioni delle feste come momento simbolico della
vita collettiva. E
non è solo nell´universo dantesco che per una "paroletta" ci si danna o ci si
salva.
Adriano Prosperi la Repubblica 27 aprile 2009