Se lo Stato laico
invade le identità
C’è una domanda che sale subito alle labbra, ora che la Francia s’avvia a
vietare il burqa nei
principali luoghi pubblici: sarebbe giusto importare ai nostri lidi il medesimo
divieto? Sarebbe in sé
desiderabile? E c'è un principio costituzionale sul quale possa fondarsi quel
divieto? Quest’ultimo
profilo chiama in causa la laicità delle nostre istituzioni, che a propria volta
la Consulta (nel 1989)
ha eretto a principio supremo dell’ordinamento giuridico italiano.
E tuttavia, per una volta almeno, meglio non affidarsi troppo alle parole, sia
pure quelle scolpite
sulle tavole di bronzo della legge. Nel panorama contemporaneo s'incontrano
Costituzioni che si
proclamano espressamente laiche (in Francia, in Russia, in Turchia), altre che
viceversa s'aprono
con l’invocatio dei (in Irlanda, in Grecia, in Svizzera, in Germania),
pur essendo - talvolta - più
laiche e liberali delle prime. D'altronde nel Regno Unito l’esistenza di
una chiesa di Stato non
offusca la laicità di quell’ordinamento, mentre la superlaica Francia spende
palate di quattrini per
finanziare il clero. Il fatto è che la laicità, come la democrazia,
si lascia declinare in mille guise. Per
misurarla bisogna valutarne le concrete applicazioni, più che le dichiarazioni
di principio. Il
modello francese è tra i più intransigenti nel vietare i simboli d'appartenenza
religiosa, e infatti dal
2004 oltralpe c’è una legge che impedisce d'indossare a scuola non solo il velo
islamico, ma pure la
kippah o una croce un po’ troppo vistosa. Proviamo allora a soppesare gli
argomenti a favore o
contro tale soluzione. E proviamo a farlo - giustappunto - laicamente, senza
preconcetti ideologici
né tanto meno religiosi.
Primo: la sicurezza. Se ti copri fino ai piedi con un vestito
afghano, come potrò esser certo che non
nascondi sotto il burqa qualche chilo di tritolo? E come farò a identificarti,
se del tuo volto posso
vedere solo gli occhi? Preoccupazione legittima, ma allora per simmetria
dovremmo proibire anche
il passamontagna, il casco dei motociclisti, la maschera di Paperino a
Carnevale. Dovremmo
impedire la circolazione ai signori troppo intabarrati, con questo freddo poi,
come si fa. No, non è la
sicurezza l’alibi di ferro per importare quel divieto, lo prova il fatto che
esso non s’estende ad altri
tipi di mascheramento. E del resto consentire il burqa non significa
consentire d'incollarlo al corpo
con il mastice, se un poliziotto ti chiede di sollevarlo per guardarti dritto in
faccia, tu comunque hai
l'obbligo di farlo.
Secondo: la tutela delle islamiche rispetto alla prepotenza
del gruppo cui appartengono. Difatti il
burqa evoca un atto di sottomissione, la condizione della donna come
figlia di un dio minore. Vero,
due volte vero; ma siamo certi che sia giusto proibirlo anche quando chi
l’indossa abbia deciso
spontaneamente di vestirsene? Non c’è forse l'ombra di un imperialismo culturale
in tale
atteggiamento? Non puzza un po’ di Stato etico, non è paternalistica l'idea che
i pubblici poteri
debbano liberare gli individui dai condizionamenti sociali o familiari?
E perché allora non vietare
pure il battesimo ai minori, la circoncisione dei bambini ebrei, la prima
comunione? No, l'identità di
singolo e di gruppo - è sempre il frutto di una scelta, mai di un’imposizione; è
questione
culturale, che va aggredita quindi con strumenti culturali, non attraverso il
bastone della legge.
Sempre ammesso che sia desiderabile forgiare una società omogenea come un
plotone militare. Ci
aveva provato Mao Tse-tung, ordinando ai cinesi d’indossare tutti la medesima
divisa. La nostra
idea di laicità è l’opposto, muove dal diritto di vestirci un po’ come ci pare.
Un Carnevale che dura
tutto l'anno.
Michele Ainis La Stampa 27 gennaio 2010