Se la vita diventa consumo
Anticipiamo un brano da Consumo, dunque sono di (Laterza, pagg. 199,
euro 15) in libreria da oggi.
Gran parte dell´economia si mantiene perché i bisogni di ieri sono
svalutati e sostituiti. Da cosa? Da altri bisogni che, in ogni caso, devono
durare il meno possibile. Le ricette manageriali per esercitare un dominio
assoluto sui dipendenti. Uno "stato d´emergenza" che favorisce una specie di
"tirannia del momento"
Al giorno d´oggi la prassi manageriale di provocare un´atmosfera di urgenza o di
presentare come stato di emergenza una situazione probabilmente normale è
considerata un metodo molto efficace, spesso il metodo preferito, per persuadere
chi viene gestito ad accettare tranquillamente anche cambiamenti drammatici che
colpiscano al cuore le sue ambizioni e prospettive o il suo stesso stile di
vita. «Dichiara lo stato di emergenza e continua a comandare», sembra essere la
ricetta manageriale sempre più in voga per esercitare un dominio indiscusso e
far passare gli attacchi più spiacevoli e devastanti al benessere dei
dipendenti, o per liberarsi della forza-lavoro che non si vuol più tenere,
lavoratori in esubero a causa delle operazioni di «razionalizzazione» o scorporo
delle attività che si susseguono.
Forse nemmeno l´apprendimento e l´oblio sfuggono alle conseguenze della
«tirannia del momento», favorita e istigata dal continuo stato di emergenza, e
del tempo perso in una successione di «nuovi inizi» disparati e apparentemente
(ma ingannevolmente) scollegati tra loro. La vita di consumo non può essere
altro che una vita di apprendimento rapido, ma ha anche bisogno di essere una
vita di oblio altrettanto rapido.
Dimenticare è importante come, se non più, che imparare. C´è un «non si può» per
ogni «si deve», e quale di questi due aspetti riveli il vero obiettivo del ritmo
vertiginoso di rinnovamento e rimozione, quale dei due sia invece solo una
misura ausiliaria per assicurare che l´obiettivo sia raggiunto, è una questione
cronicamente opinabile e irrisolta. (...)
Siamo di nuovo alla questione dell´uovo e della gallina... Devi «buttar via» il
beige per preparare il viso a ricevere i nuovi, vivaci colori, oppure sono
questi ultimi che stanno inondando il reparto cosmetici dei supermarket per
garantire che le scorte inutilizzate di beige vengano effettivamente «buttate
via, immediatamente»?
Molte delle donne che a milioni stanno buttando via il beige per riempire la
borsetta di cosmetici a colori vivaci direbbero molto probabilmente che
cestinare il beige è un effetto secondario, deprecabile ma inevitabile, del
rinnovamento e miglioramento del make-up, un sacrificio triste ma necessario per
stare al passo con il progresso. Ma tra le migliaia di direttori di negozio che
stanno inviando ordini per il nuovo assortimento qualcuno ammetterebbe, in un
momento di sincerità, che se gli scaffali dei cosmetici si sono riempiti di
colori vivaci ciò è accaduto per la necessità di abbreviare la vita utile del
beige, facendo in modo che il traffico nei grandi magazzini rimanga intenso, che
l´economia continui ad andare avanti e che i profitti crescano. Il Pil, indice
ufficiale del benessere della nazione, non si misura forse dalla quantità di
denaro che passa di mano? La crescita economica non è forse alimentata
dall´energia e dall´attività dei consumatori? E il consumatore che non si dà da
fare per liberarsi di cose consumate o obsolete (o, meglio, di tutto ciò che
rimane degli acquisti di ieri) è un ossimoro: come un vento che non soffi o un
fiume che non scorra...
Sembra che entrambe le risposte di cui sopra siano giuste: esse sono
complementari, non contraddittorie. In una società di consumatori e in un´era
in cui la «politica della vita» sta sostituendo la Politica con la iniziale
maiuscola un tempo ostentata con fierezza, il vero «ciclo economico», quello che
veramente fa andare avanti l´economia, è il ciclo del «compra, godi e butta
via». Che due risposte apparentemente contraddittorie possano essere
entrambe giuste nello stesso tempo è precisamente la grande impresa compiuta
dalla società dei consumatori: e, probabilmente, la chiave della sua
stupefacente capacità di auto-riproduzione ed espansione.
La vita di un consumatore, la vita di consumo, non consiste nel
l´acquisire e possedere. E non consiste nemmeno nel liberarsi di ciò che era
stato acquisito l´altro ieri e orgogliosamente ostentato ieri. Consiste
piuttosto, in primo luogo e soprattutto, nel rimanere in movimento.
Se aveva ragione Max Weber affermando che il principio etico della vita di
produzione era (e doveva essere sempre, se lo scopo era una vita di produzione)
il rinvio della gratificazione, allora la linea-guida etica della vita di
consumo (se l´etica di una vita simile può essere presentata sotto forma di un
codice di comportamento prescritto) dev´essere il rimanere insoddisfatti. (...)
Col passare del tempo, in effetti, non abbiamo più bisogno di essere
spinti o trascinati per sentirci così e agire in base a questo sentire. Non è
rimasto più niente da desiderare? Niente da inseguire? Niente da sognare
sperando che al risveglio il sogno sia diventato realtà? Si è condannati ad
accettare una volta per tutte ciò che si ha (e dunque, per procura, ciò che si
è)? Non c´è più niente di nuovo e straordinario che si faccia strada verso il
palcoscenico per ricevere attenzione, e niente, sulla stessa scena, da eliminare
e di cui sbarazzarsi? Una situazione di questo tipo ? di breve durata, si spera
? si può chiamare solo con il suo nome: «noia». Gli incubi che ossessionano
l´Homo consumens sono le cose, animate o inanimate, o le loro ombre ? i ricordi
delle cose, animate o inanimate ? che minacciano di trattenersi più del dovuto e
occupare la scena... (...)
L´economia dei consumi e il consumismo sono mantenuti in vita in quanto i
bisogni di ieri sono sminuiti e svalutati, e i loro oggetti ridicolizzati e
sfigurati come ormai obsoleti, e ancor più è l´idea stessa che la vita di
consumo debba essere guidata dalla soddisfazione dei bisogni a essere
screditata. Il trucco beige, che la scorsa stagione era segno di
sicurezza, ormai è solo un colore che sta passando di moda, spento e brutto, e
per giunta un marchio di disonore, segno di ignoranza, indolenza, inettitudine o
complesso di inferiorità; l´atto che fino a poco tempo fa denotava generalmente
ribellione e azzardo e confermava che si era «un passo avanti a chi fa tendenza»
diventa ben presto sintomo di pigrizia o codardia («Non è trucco, è una coperta
di sicurezza»), segno che ci si trova ormai in coda, che si è persino al
verde...
Ricordiamoci del verdetto della cultura consumistica: gli individui che si
accontentano di avere un insieme finito di bisogni, che agiscono solo in base a
ciò di cui pensano di avere bisogno e non cercano mai nuovi bisogni che
potrebbero suscitare un piacevole desiderio di soddisfazione sono consumatori
difettosi, vale a dire il tipo di emarginati sociali specifici della società dei
consumatori. La minaccia e la paura dell´ostracismo e dell´esclusione aleggiano
anche su chi è soddisfatto dell´identità che possiede e su chi si accontenta di
ciò che i suoi «altri che contano» lo portano a essere.
La cultura consumistica è contrassegnata dalla costante pressione a essere
qualcun altro. I mercati dei beni di consumo sono imperniati sulla
svalutazione delle loro precedenti offerte, in modo da creare nella domanda del
pubblico uno spazio che sarà riempito dalle nuove offerte. Essi alimentano
l´insoddisfazione nei confronti dei prodotti usati dai consumatori per
soddisfare i propri bisogni, e coltivano un perenne scontento verso l´identità
acquisita e verso l´insieme di bisogni attraverso i quali viene definita.
Cambiare identità, liberarsi del passato e ricercare nuovi inizi, lottando per
rinascere: tutto ciò viene incoraggiato da quella cultura come un dovere
camuffato da privilegio.
Zygmunt Bauman Repubblica 7.11.08