Se la politica invoca dio
La crisi della società secolare
La lezione di Gustavo Zagrebelsky a Bologna
Secondo alcuni sarebbe finito il movimento storico che in cinque secoli ha
portato l’Occidente a distinguere Stato e religione: ma è un problema tutto da
discutere. Il clericalismo ateo è la forma odierna di una duplice corruzione
La Rivoluzione francese fu considerata opera del demonio fuor di metafora
Pubblichiamo alcune parti della lezione di per la serie "Elogio della politica"
diretta da Ivano Dionigi
Le discussioni sul rapporto religione politica, non solo in Italia ma in
generale nel mondo, sono contrassegnate da un atteggiamento che si potrebbe
definire, con una contradictio in adiecto, come sociologia normativa. Si procede
dalla descrizione delle condizioni de facto della società (sociologia) e da
questa descrizione si ricavano conseguenze de iure (norme): da quello che
succede a quello che è giusto che succeda.
Si constata un intreccio crescente tra poteri pubblici e autorità religiose. Il
primo chiede sostegno alle seconde e le seconde al primo, ciascuno per la
propria utilità. I rispettivi confini si fanno evanescenti. La politica
manifestamente cerca l´appoggio della religione e la religione l´appoggio della
politica. La "secolarizzazione", il movimento storico che in cinque secoli ha
portato l´Occidente a distinguere tra politica e religione e a fondare lo Stato
su ragioni immanenti, non teologiche, sarebbe alla fine. Saremmo entrati cioè
nell´epoca della "post-secolarizzazione". La ragione di questo rinnovato
intreccio starebbe nel fallimento della pretesa della "ragione secolare" di
fondare il governo dell´esistenza, la comprensione del suo significato e la sua
salvaguardia su forze morali e scientifiche proprie, cioè esclusivamente umane.
Questo fallimento dimostrerebbe l´insensatezza di quella pretesa. La parabola
storica che, dall´umanesimo, cioè dalla centralità e signoria dell´essere umano
nell´universo, ha condotto alla sovranità popolare si starebbe per concludere
con un tracollo.
A distanza di due secoli, dovremmo riconoscere che avevano ragione i critici
della Rivoluzione, la rivoluzione che aveva preteso di rovesciare la base del
potere, dalla grazia di Dio alla volontà popolare, e per questo fu considerata,
non per metafora, opera del demonio. Da ciò deriverebbe la necessità di
orientare di nuovo la vita politica al trascendente, tramite un rinnovato
"appello al cielo". Dio e ciò che su Dio si appoggia nella storia, cioè
religione e apparati chiesastici, siano chiamati, come deus ex machina, a
superare l´impasse in cui, per il nostro orgoglio smisurato, ci saremmo
cacciati. Da qui, la necessità di rivedere l´idea tramandata di laicità che
abbiamo recepito dal passato e di adeguarla (ecco la "nuova laicità" di cui si
parla) alle odierne condizioni delle nostre società.
Questo modo di ragionare è un insieme di proposizioni indimostrabili e
contestabili e che non si legano affatto l´una all´altra. È cioè una serie di
aporie che nascondono, nel migliore dei casi, salti logici e auto-illusioni; nel
peggiore, inganni.
(a) Innanzitutto, questi argomenti ci trasportano in un´atmosfera che, a
considerarla dappresso, appare intrisa di un certo spirito apocalittico e
messianico. «Ormai solo un dio ci può salvare», è l´esclamazione di Martin
Heidegger, entrata ormai nel nostro comune modo di pensare. Questa speranza è
solo un modo per esprimere un atteggiamento nichilistico, cioè la rassegnazione
di fronte a ciò che si ritiene inevitabile. Chi potrà mettere un freno
all´effetto-serra? Un dio o l´applicazione del trattato di Kyoto sulle emissioni
di gas nell´atmosfera? Chi potrà arrestare lo sfruttamento delle risorse
agricole dei popoli del terzo e quarto mondo? Un dio o una politica adeguata del
WTO?
(b) Se non "un dio", potrebbe essere "il Dio" di una religione positiva questo
deus ex machina capace di proteggerci dallo sviluppo incontrollato della tecnica
e dalle sue tendenze sociali distruttrici, ancorando la nostra visione del mondo
a un principio d´ordine metafisico, sottratto al nostro arbitrio? La risposta
positiva a questa domanda sembra ovvia. Dio è la fonte di atteggiamenti
religiosi che coincidono con il riconoscimento dell´esistenza di un limite a
protezione del sacro, sottratto a manipolazioni profane. La coscienza del sacro
darebbe origine a quella forza interiore di governo delle pulsioni distruttrici,
che è beneficamente orientata alla coesione sociale e ai comportamenti
altruistici.
Ma è davvero così ovvio? Non mi pare. La storia insegna che il "sacro", come le
religioni, sono un immenso deposito di forza. Ma è una forza ambigua, che può
orientarsi a fini opposti, benefici o malefici; verso l´amore del prossimo o
l´odio e l´oppressione del diverso; per la pace ma anche per la guerra; per la
comprensione ma anche per l´incomprensione reciproca; per atteggiamenti modesti
e moderati, ma anche arroganti e superbi; per il rispetto del creato ma anche
per il suo sfruttamento intensivo.
(c) Se non a Dio, in generale, forse al Dio cristiano, di cui ci ha parlato Gesù
di Nazareth, potremmo forse rivolgerci? Ricordo il senso in cui formuliamo
questa domanda: lo scopo è di trovarvi una forza per il governo della società,
cioè rivolgerci al cristianesimo come a una "religione civile". Davvero possiamo
noi stravolgere l´insegnamento evangelico fino a farne qualcosa di simile a un
manuale per il buon cittadino? Davvero possiamo trasformare Gesù di Nazareth,
che, nel deserto, respinse la tentazione diabolica del potere, che fuggì sul
monte quando lo si voleva proclamare re, che di fronte alla morte, non propose a
Pilato un compromesso di comune utilità ma rivendicò una regalità di tutt´altra
natura; davvero possiamo trasformarlo in maestro di virtù civili? La domanda
suona di per se stessa assurda, ma lo è di meno se si considerano le resistenze
che la gerarchia ecclesiastica, di recente per esempio in Spagna, ha opposto
all´introduzione nella scuola di attività laiche di educazione alla
cittadinanza, per riservare a sé, cioè alla dottrina cattolica, questa funzione.
Il celebre passo di Paolo (Rom 13, 1-2): «Ciascuno stia sottomesso alle autorità
costituite; poiché non c´è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono
stabilite da Dio. Quindi, chi si oppone all´autorità, si oppone all´ordine
stabilito da Dio», non sembra giustificare il commento della Bibbia di
Gerusalemme: «In questo modo la religione cristiana penetra, oltre che la vita
morale, la stessa vita civile». Il dovere incondizionato di obbedienza dei
cristiani, infatti, non autorizza affatto a dire che la fede in Cristo si
confonde (penetra) nel potere civile e così contribuisce a legittimarlo. Sembra
significare, in certo modo, il contrario: obbedite comunque, fino a sopportare
la persecuzione, in modo da potervi dedicare integralmente alle opere e alla
testimonianza della fede. Solo quando l´ordine di Cesare contraddice la parola
del Cristo, rendendo impossibile il suo ascolto, allora occorre obbedire a Dio,
piuttosto che agli uomini (Atti, 5, 29).
Da nessuna parte, pare, si autorizza l´uso della fede cristiana per rafforzare -
come anche d´altra parte per indebolire - l´autorità del potere civile. I
cristiani «risiedono ciascuno nella propria patria, ma come stranieri»;
«partecipano a tutti gli oneri pubblici, [non come cristiani, ma] come
cittadini». La distinzione, che così chiaramente è posta nella Lettera a
Diogneto, equivale a condannare ogni uso civile della religione cristiana. E,
invece, nelle alte sfere ecclesiastiche, è stata accolta con soddisfazione,
quasi come un meritato riconoscimento e non come un affronto, come ci si sarebbe
aspettati, l´affermazione recente di un Capo di Stato che dà atto che per un
governante è buona cosa avere a che fare con cristiani timorati di Dio, dove il
timor di Dio si traduce in speciale fedeltà e malleabilità politiche; dove la
"buona Novella" diventa instrumentum regni.
D´altro canto, si può comprendere che l´autorità politica abbia interesse ad
assicurarsi l´appoggio della religione. E si comprende ch´essa, per raggiungere
lo scopo, sia disposta a concederle i più larghi privilegi, simbolici e
materiali. La "ragion di Stato" lo consiglia e il governante accorto non si
lascerà sfuggire l´occasione: «Tra tutte le leggi non ve n´è più favorevole a
Principi, che la Christiana; perché questa sottomette loro, non solamente i
corpi, e le facoltà de´ sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora, e le
conscienze; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora, e i pensieri»,
diceva Giovanni Botero (Della Ragion di Stato, 1589, libro II, «Modi di propagar
la religione»). In tal modo, però, sarà lo Stato a "penetrare" nella religione e
la Chiesa, accarezzata nei suoi bisogni materiali e blandita nel suo desiderio
di onori e ricchezze, perderà la sua libertà. Così come la perderà lo Stato, in
cambio dell´appoggio della Chiesa. Il clericalismo ateo è la forma odierna di
questa duplice corruzione, alla quale concorre il tangibile interesse tanto
della parte ecclesiastica quanto di quella civile.
Gustavo Zagrebelsky Repubblica 30.5.08