Se la legge regola la vita e la morte

Ai politici prepotenti, ai giuristi impazienti, agli eticisti saccenti si addice l'ammonimento di Michel
de Montaigne: «La vita è un movimento ineguale, irregolare e multiforme». Quest'intima sua natura
fa sì che la vita appaia come irriducibile ad un carattere proprio del diritto: il dover essere eguale,
regolare, uniforme. Da qui, da quest'antico e ineliminabile conflitto, nascono le difficoltà che oggi
registriamo, più intense di quelle del passato perché l'innovazione scientifica e tecnologica fa
progressivamente venir meno le barriere che le leggi naturali ponevano alla libertà di scelta sul
modo di nascere e di morire. Proprio la natura, con le sue leggi che apparivano sottratte alla volontà
umana, allontanava dal diritto l'obbligo di misurarsi con quel conflitto. I grandi codici, pur
aprendosi tutti con una parte dedicata alle "persone", ne ignoravano del tutto la fisicità, facendo
minimi accenni al nascere e al morire. Di questi punti estremi del ciclo vitale si limitavano a
registrare la naturalità. Era la natura che governava, e il diritto poteva silenziosamente stare a
guardare.
«Nella disciplina storica per molto tempo ha prevalso l'idea che il corpo appartenesse alla natura».
Questa confessione di Jacques Le Goff può apparire sorprendente, perché da sempre riti e regole del
potere, ma pure i ritmi della vita quotidiana e le pratiche mediche e magiche, hanno scandito le
modalità d'uso del corpo, la sua libertà o il suo essere oggetto d'implacabile coercizione. Coglieva,
però, un dato culturale, oggi sempre più respinto sullo sfondo da una artificialità che ci avvolge
sempre più intensamente, che supera le barriere naturali, che consente scelte dove prima era solo
caso o necessità. Di questo ci ha parlato la vicenda di Piergiorgio Welby e ci parla oggi quella di
Eluana Englaro. Di questo ci parlano i tre milioni di bambini nati con le tecniche di procreazione
assistita. Di questo ci parla Oscar Pistorius che, privo della parte inferiore delle gambe, le
sostituisce con protesi in fibra di carbonio e non solo corre e vince nelle paraolimpiadi, ma si vede
riconosciuto anche il diritto a partecipare alle olimpiadi vere e proprie, fa cadere la barriera tra
"normodotati" e portatori di protesi e impone così una nuova nozione di normalità.
Lo sappiamo da molti anni, almeno da quando nel 1970 si inventò il termine bioetica, che un mondo
nuovo s'apriva davanti alle riflessioni ed alle pratiche concrete, e ciò evocava pure un nuovo
bisogno di regole, tanto che si è cominciato a parlare di biodiritto. Vi è un campo di regole - etiche,
giuridiche - alle quali la vita dovrebbe essere sottoposta. Come, però? Ed è questa domanda,
ineludibile, che fa del rapporto tra vita e regole un tema che sopravanza tutti gli altri, e sembra
essere uno di quelli che, con intensità maggiore, danno il tono al nostro tempo, alla nostra civiltà.
È vero, una nuova riflessione è necessaria, perché la tecnoscienza ha sconvolto paradigmi
consolidati, incide sull'antropologia stessa quale si era venuta costruendo nella storia dell'umanità.
Ma questo invito è spesso accompagnato da una contraddizione, nella discussione italiana
soprattutto. Si invocano categorie nuove ma, quando viene il momento di dare spazio alla regola
giuridica, troppo spesso si impugnano gli strumenti vecchi. Timorosi del nuovo, l'unica norma
possibile sembra essere il divieto. No all'interruzione dei trattamenti di sopravvivenza, no al
testamento biologico, no alla procreazione assistita (e no a quel nuovo modo di organizzare le
relazioni personali rappresentato dalle unioni di fatto). Ma può il diritto divenire solo il custode
delle arretratezze e delle paure?
La strumentazione giuridica, costruita in altro clima e per altri obiettivi, deve essere profondamente
rimeditata. L'unico protagonista non può essere un legislatore che s'impadronisce d'ogni dettaglio, e
giudica e manda una volta per tutte. L'unica tecnica giuridica disponibile non può essere ritrovata
nel divieto, al tempo stesso eccessivo e vano. La vita non può essere sacrificata da una norma
costrittiva, che dovrebbe ricostruire una situazione artificiale di impossibilità al posto di quella
naturale, travolta dal progresso scientifico. Questa è pretesa vana, verrebbe quasi da dire innaturale,
mentre la parola giusta è autoritaria.
Questo significa abbandonare ogni ancoraggio, muoversi senza bussola nel mare aperto e
drammatico di innovazioni che danno alla vita e al suo governo tratti sconvolgenti e persino
drammatici? Niente affatto. Vi è un forte nucleo di principi dai quali muovere, che possono essere
riassunti nella formula della "costituzionalizzazione della persona", resa evidente non solo dalla
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, ma soprattutto dalla progressiva riscoperta della
trama profonda della nostra Costituzione. Una trama che fa emergere libertà e dignità nella duplice
dimensione individuale e sociale, legandole indissolubilmente (l'"esistenza libera e dignitosa" di cui
parla l'articolo 36) e, quindi, escludendo che il riferimento alla dignità possa divenire tramite per
l'imposizione di punti di vista limitativi della libertà e della coscienza della persona; che ribadisce il
diritti alla libertà personale (articolo 13); che fa del "rispetto della persona umana" (articolo 32) un
limite che lo stesso legislatore non può valicare; che esclude la possibilità di discriminazioni sulla
base delle "condizioni personali" (articolo 3).
Il governo della vita è così posto anzitutto nelle mani della persona, e ciò esige un diverso modo
d'intendere la regola giuridica, che si fa flessibile, discreta, capace di seguire la vita nelle varie sue
sfaccettature, singolarità, irregolarità, mutevolezze. Riferimento a principi comuni, ma non chiusura
in un unico schema. La contraddizione disvelata dall'ammonimento di Montaigne è così superata?
Conclusione eccessiva: ma è certo che ci si muove in una dimensione dove il conflitto trova diversi
e più adeguati strumenti di composizione.
Torniamo al caso di Eluana Englaro, drammaticamente ancora aperto. Il punto di svolta è stato
rappresentato dalla sentenza della Corte di Cassazione dell'ottobre 2007 che, dopo aver ricostruito i
principi di riferimento con un rigore raro anche in analoghe sentenze di altri paesi, li ha poi riferiti
al caso concreto, affidando alla Corte d'appello di Milano il compito di attuarli. Sono poi venuti le
ripulse e le resistenze, l'illegittimo rifiuto della Regione Lombardia di dare attuazione alla decisione
dei giudici nelle proprie strutture ospedaliere, addirittura il conflitto di attribuzione sollevato
davanti alla Corte costituzionale dal Parlamento, che afferma d'essere stato espropriato dai giudici
del suo esclusivo potere legislativo.
Una guerriglia istituzionale è in corso, che nega l'umana pietà, ma che mette pure in evidenza un
impasto tra arretratezza culturale e piccola furbizia politica. Non è pensabile che il Parlamento
segua con una regolazione minuta, di dettaglio, ogni innovazione prodotta da scienza e tecnologia.
Compito suo è quello della legislazione per principi che esige, poi, l'ineliminabile mediazione
giudiziaria, sul duplice versante dell'adattamento alle specifiche vicende individuali e della risposta
ai quesiti via via posti dall'innovazione, ai quali non ci si può sottrarre senza negare giustizia a chi
la chiede.
Ma l'insistenza sulle prerogative del Parlamento ha un obiettivo di breve periodo. Sostenendo che il
legislatore è il solo ad aver diritto di parola in determinate materie, si crea la premessa per norme
che formalmente riconoscono le nuove esigenze, ma sostanzialmente le rinchiudono nei vecchi
schemi. Gli oppositori di ieri si dichiarano pronti a sostenere una legge sul testamento biologico. In
che modo, però? Escludendo che si possa rinunciare all'idratazione e all'alimentazione forzata e che
le decisioni dell'interessato possano avere valore vincolante per il medico. Così, quello che viene
presentato come il riconoscimento d'un diritto assume i colori d'una restaurazione, perché è una
forzatura l'esclusione dalle terapie rifiutabili dell'idratazione e dell'alimentazione (Ignazio Marino
non si stanca di ricordarci quanti siano gli interventi terapeutici che devono accompagnarle e lo
stesso cardinale Barragan riconosce che vi sono casi in cui esse altro non sono che accanimento
terapeutico). E perché subordinare alla valutazione del medico la portata del testamento biologico
contraddice il principio consolidato del valore del consenso informato dell'interessato.
Così una politica intimamente debole cerca di impadronirsi della vita delle persone. Ma così segna
una distanza, mostra la sua incapacità di comprendere il mondo che cambia, rinuncia a fare del
diritto uno strumento rispettoso della libertà e della stessa umanità delle persone.

Stefano Rodotà            la Repubblica  18 settembre 2008