Se la fede genera mostri

 

 

Perché le religioni generano mostri? O meglio, perché alcune religioni continuano a generare mostri? E perché altre, che li hanno generati in passato, sono riuscite a liberarsi da questo male profondo?

Che un laico dichiarato si ponga queste domande non è irrispettoso. Noi laici sappiamo bene quali mostri abbiano generato anche le «religioni» laiche, che senza doversi richiamare a una verità assoluta enunciata, dall’alto dei Cieli, hanno commesso, nel nome di un credo diabolico, crimini orrendi.

E sappiamo bene con quanta fatica, di fronte alle catastrofi di quel secolo di follia che è stato il Novecento, siamo riusciti a creare, laici e credenti insieme, delle istituzioni, ancora imperfette, che rendano un giorno credibile la realizzazione dei sogni di pace di profeti antichi e moderni fra tutte le genti.

Non penso che noi laici possiamo dare lezioni a nessuno. Ma credo che abbiamo il diritto di chiedere ai rappresentanti delle grandi religioni, oggi impegnati, meritoriamente, in tentativi di dialogo fra le verità assolute che ciascuna di loro crede di rappresentare, di porre al centro del loro confronto il quesito che noi laici con smarrimento ci poniamo: perché le religioni continuano a generare mostri?

Ho una lunga, bella esperienza di partecipazione a incontri interreligiosi, nei quali, come laico non credente in un Dio creatore, mi viene chiesto di dare un pur piccolo contributo al disegno di un’ecumene di pace. In codesti incontri viene affermata da tutti una professione di amore del prossimo, che si assicura essere connaturata al loro credo religioso. Viene però abitualmente taciuto il fatto, a tutti ben noto, che non è stato affatto così in passato, e che quelle stesse fedi si sono scontrate per secoli, e hanno perseguitato, torturato e messo a morte tutti coloro che esse giudicavano eretici o infedeli. Il silenzio sul passato è giudicato utile per non risvegliare antichi odi, appena sopiti.

Questa scelta era ed è probabilmente utile se si vuole che il dialogo prosegua, in base anche a un’altra premessa, riaffermata con l’abituale sincerità da Benedetto XVI in un recente pronunciamento: e cioè che un dialogo interreligioso, nel senso stretto della parola, non è possibile, perché imporrebbe a ciascuno di mettere in discussione la propria fede; essendo invece utile se ci si limita ad affrontare pubblicamente le conseguenze culturali delle scelte religiose fondamentali, al fine di produrre una reciproca correzione e arricchimento.
È giusto pensare che anche con queste riserve di principio il dialogo interreligioso, o quello tra le fedi religiose e la fede laica, sia utile: e che sarebbe rischioso, in tali incontri, rimproverarsi reciprocamente colpe passate o presenti. Ma se davvero si vuole un arricchimento e una correzione di quelle deviazioni - se vogliamo così chiamarle - che hanno condotto e conducono questa o quella religione, in questo o quel momento della sua storia, a generare, nel nome di Dio, guerre e massacri, come rinunciare a un momento di seria, sincera autocritica?

È ovviamente prudente che quando esponenti religiosi cristiani, ebrei, musulmani si incontrano, ciascuno eviti i rimproveri, e critichi la propria religione e non quella altrui, chiedendo perdono agli altri delle proprie colpe, passate o presenti: come ha saputo fare in più di un’occasione, anche al Muro del Pianto di Gerusalemme, Giovanni Paolo II. Sarebbe utile a tutti se ciascuno compisse anche una riflessione per chiarire a se stesso, e per spiegare agli altri, quale evoluzione del proprio credo religioso sia stata necessaria affinché la propria religione cessasse di «generare mostri»: e quali contributi abbia dato a questa graduale, benefica evoluzione anche il pensiero laico, maestro di tolleranza e di sano relativismo.

Gli incontri interreligiosi non sono certo inutili anche se ognuno dei partecipanti dedica il proprio tempo soprattutto a lodare se stesso, e a offrire una immagine idealizzata del proprio credo: questo può essere il primo passo per un cambiamento e per una correzione degli errori passati, o presenti. Ma sarebbero ancor più utili se ognuno dedicasse un po’ di tempo a fare un mea culpa e a spiegare quali mutamenti della propria fede siano stati o siano necessari perché essa divenisse o divenga strumento di amore e di pace fra le genti, anziché di odio e di guerra. Questo farebbe bene a tutti. Anche se, a tal fine, può darsi che sia necessario mettere in discussione la propria fede, passata o presente. Altrimenti le parole e i gesti di amicizia che sono d’uso in tali occasioni possono risultare vani.

Arrigo Levi   La Stampa 1/12/08