Se la Chiesa esige uno "Stato cristiano"


Era parecchio tempo che non si sentiva utilizzare, nel dibattito pubblico, il termine "statolatria"
(culto dello Stato): se ne è servito l'arcivescovo Angelo Amato per polemizzare contro l'Educazione
alla cittadinanza, nuova materia di insegnamento nella Spagna di Zapatero. Per il prelato si tratta di
un "indottrinamento laicista" che rinnova, in forme mutate, la pretesa dello Stato di esercitare sui
cittadini un'autorità non solo legale, esteriore, ma anche pedagogica e morale, interiore. Uno Stato
che fa concorrenza a Dio.

Un tempo, con "statolatria" la cultura cattolica definiva polemicamente il fascismo, col quale la
Chiesa si era conciliata ma di cui non poteva accettare il ruolo "totale" che esso assegnava alla
statualità, e anche gli esiti politici dell'idealismo tedesco e italiano. Lo Stato è per Hegel «l'ingresso
di Dio nel mondo», e per Gentile è «Stato etico»: lo Stato realizza il compimento della vita
dell'uomo, è la fonte della sua esistenza storica, morale e politica, è l'orizzonte di ogni legittimità.
Espressione estrema della lotta moderna contro il principio d'autorità ecclesiastico, lo Stato etico
viene prima del singolo e dei suoi diritti soggettivi, e, con la sua prassi educativa, porta l'arbitrio dei
privati ad aderire pienamente e consapevolmente (e qui starebbe la vera libertà) a quella vita
collettiva (la "nazione") di cui lo Stato è l'espressione storica più piena e razionale.
Contro questo culto dello Stato si muovevano i socialisti, che nello Stato vedevano soprattutto
l'aspetto giuridico del dominio di classe, i liberali (non tutti) ostili al superamento della centralità
etica, giuridica e politica del singolo soggetto, e appunto anche il cattolicesimo che al potere
autoreferenziale di uno Stato così inteso opponeva l'autonomia della Chiesa e della persona,
entrambe di origine divina.
Ma che cosa significa il ricorso polemico al termine "statolatria" nel dibattito di oggi, quando lo
Stato, con ogni evidenza, non ha più quelle pretese? Quando lo Stato etico è un'esperienza sconfitta
dalla storia, e tutta la riflessione politica e morale, si orienta altrove per individuare le coordinate
della libertà individuale e collettiva? Qual è la ragione di questo anacronismo lessicale?

Siamo davanti, di fatto, all'equiparazione dello Stato laico contemporaneo allo Stato etico,
all'assimilazione dell'educazione dei giovani alla cittadinanza democratica con la trasmissione
autoritaria di specifici contenuti dottrinari, al timore che quando lo Stato educa al rispetto dei diritti
realizzi una limitazione della libertà personale e collettiva, che il potere sia ormai (secondo le parole
dell'arcivescovo) "biopolitico", che cioè si intrometta nella vita intima delle persone.


Ora, in questa argomentazione sono evidenti alcuni limiti: il primo è che tutto ciò sembra ricalcare
le polemiche ecclesiastiche ottocentesche contro l'istruzione pubblica promossa dallo Stato, vista
come una violazione dei diritti delle famiglie. Il secondo è che la Chiesa definisce "biopolitica" la
legge di uno Stato, ma non la propria impressionante serie di divieti, che vincolano gravemente i
diritti dei singoli credenti a determinare in modo autonomo come vivere, amare, procreare, morire.

Il terzo limite è infine che qui si interpreta polemicamente come un contenuto ideologico particolare
(e pericoloso) proprio quel principio di laicità dello Stato che è al contrario la condizione universale
formale che fonda e garantisce la coesistenza dei singoli soggetti e dei gruppi sociali.

Lo Stato laico (quale cerca di essere la Spagna) non può non insegnare ai giovani il pluralismo e la
tolleranza.
E non può non spiegare, a tutti i cittadini, che la legittimità del legame politico
democratico e dei doveri che ne derivano sta nel fatto che le leggi dello Stato rispettano e
valorizzano i diritti umani, civili, sociali e politici, e non servono ad affermare un'identità religiosa o
culturale (né, ovviamente, etnica), neppure se è quella della maggioranza. Questo non è
l'insegnamento di un'ideologia che fa dello Stato un idolatrico concorrente di Dio, ma della libertà
dei moderni, e dei contemporanei.

E se non si vuole comprendere che la laicità dello Stato non è un opinabile valore fra gli altri ma è
la decisione fondamentale della civiltà moderna che realizza la tutela politica della libera
espressione sociale di ogni possibile fede e cultura, dell'uguale dignità dei più vari progetti di vita
purché non implichino violenza e dominio su altri; se si critica e si combatte come statolatria, come
culto dello Stato, l'esistenza e l'azione di uno Stato che rende possibili tutti i culti (e anche il rifiuto
dei culti) e tutte le culture; allora in realtà non si vuole, al di là delle espressioni verbali, uno Stato
laico ma uno Stato cristiano, o almeno uno Stato che di fatto privilegia il cristianesimo.
Come la
distinzione fra laicità e laicismo, così il ricorso al termine "statolatria" è quindi più che una scelta
linguistica: è un chiaro segno, fra molti altri, di un preciso indirizzo di politica ecclesiastica di cui
farebbero bene a essere consapevoli tutti quei laici che del ruolo dello Stato hanno ancora un
concetto adeguato.

 Carlo Galli         la Repubblica 22 dicembre 2008