Se l'Europa caccia i Rom
Forse, mai prima d´ora l´Unione Europea aveva attraversato una crisi così
radicale. Non perché prima d´ora non vi fossero mai stati dissidi fra gli stati
membri sulle politiche comunitarie, ma perché per la prima volta il dissenso
riguarda i principi fondamentali sui quali l´Unione è nata. Il governo francese
e quello italiano sono alla testa di questa crisi e portano la diretta
responsabilità di un ritorno arrogante ad una politica delle frontiere quanto
addirittura delle espulsioni di massa. L´Articolo 19 della Carta dei Diritti
dell´Unione Europea stabilisce che «le espulsioni collettive sono vietate».
Nel testo di questo articolo riecheggia la storia europea del Novecento, quelle
terribili tragedie che portano i nomi di Olocausto, genocidio e pulizia etnica,
la persecuzione e il massacro di individui colpevoli di appartenere a un gruppo
etnico o nazionale o di professare una religione.
Ebrei e gitani subirono morendo a milioni la conseguenza di una delle più orrende ideologie che abbia prodotto il nostro continente: la stigmatizzazione collettiva, la persecuzione di individui a causa della loro appartenenza a una comunità che non si conforma per una qualche ragione alla cultura e ai modi di vita della comunità nazionale di maggioranza. Le radici dell´Unione Europea sono nei campi di sterminio - da questa memoria occorrerebbe partire quando si giudicano le azioni dei governi.
Non consoliamoci dicendo che gli zingari espulsi in questi mesi dalla Francia, e quelli che il governo italiano promette di espellere ed espelle dal nostro paese, non sono spediti nei campi di concentramento; che, anzi, come nel caso francese, sono "invitati" ad andarsene e accompagnati alle frontiere con in tasca il biglietto di viaggio (di sola andata) pagato con le tasse dei contribuenti. La forma "civile" dell´accompagnamento al confine non cambia la natura gravissima del fatto al quale stiamo assistendo senza, purtroppo, preoccuparci abbastanza: una discriminazione collettiva, una violazione della libertà delle persone - tra l´altro europee - in ragione della loro identità, per ciò che sono. In violazione di un altro articolo della Carta dell´Unione, l´Articolo 21: «È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l´origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l´appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l´età o le tendenze sessuali».
È triste e molto preoccupante che nessuna voce laica, nessuna voce politica si sia immediatamente alzata con chiarezza e coerenza per criticare queste proposte o decisioni, per esprimere dissenso e orrore per una pratica che il nostro governo ha reso se così si può dire ordinaria. È sconfortante vedere come la cultura dei diritti umani non sia patrimonio solido della politica culturale dei partiti e dell´opinione pubblica; come solo la Chiesa si alzi per criticare queste decisioni, che solo essa senta il dovere di ricordarci che il nostro paese, come la Francia, ha sottoscritto la Carta dei diritti e quindi anche gli Articoli 19 e 21; che dunque nessun governo europeo può autonomamente decidere in riferimento a una politica europea che stabilisce sostanzialmente il diritto di insediamento e di movimento; che i problemi di integrazione vanno affrontati con politiche di integrazione non con politiche di espulsione. Un discorso che è squisitamente politico e che, soprattutto, è essenziale per la vita dell´Unione. Eppure non sembra appartenere al linguaggio della nostra politica, dei nostri politici.
È significativo che questa recrudescenza della politica cosiddetta della sicurezza avvenga in queste settimane; significativo, perché sembra l´effetto di un´azione la cui regia fa capo a governi che cercano di distogliere con la propaganda contro i Rom l´attenzione per le difficoltà nelle quali versano le loro economie e di mettere a tacere la loro crisi di legittimità. È un caso che tra i punti del programma che il nostro governo ha sfornato (e del quale relazionerà tra qualche giorno il suo leader) vi sia in primo piano quello della sicurezza? È un caso che il Presidente Sarkozy, con un governo nella bufera per scandali e corruzione, con un consenso alle politiche economiche bassissimo, voglia distrarre l´opinione pubblica del suo paese aprendo un contenzioso con l´Unione Europea su un punto cruciale come questo? Il montante nazionalismo usato come espediente per salire nei sondaggi: in Italia come in Francia è questa la strategia che sta dietro la propaganda del "pugno duro" con gli zingari e gli immigrati. Anche a costo di mandare in frantumi una nobile cultura politica comunitaria. Il dissenso che si è aperto nell´Unione Europea prefigura una sfida gravissima ai valori dei diritti umani e della dignità delle persone sui quali è nata l´Unione.
Nadia Urbinati Repubblica 26.9.10
L'alterità, ostaggio delle nostre paure
A sentire certe dichiarazioni politiche, in questi ultimi mesi, non si può fare
a meno di provare una
profonda sensazione di disagio. Tutto avviene come se l'Europa, e più
precisamente la Francia,
fosse devastata da orde definite barbariche o si sforzasse di preservare per
quanto possibile le ultime
vestigia della sua civiltà, minacciate da influenze straniere distruttrici della
nostra identità. Come se
questa parola potesse, per noi, eredi di Roma, di Atene e di Gerusalemme, essere
scritta solo al
singolare.
Secondo l'immagine
popolare, incoraggiata dai discorsi delle alte sfere, sembra che si profilino
all'orizzonte lunghe file di minareti a minacciare le bianche e linde chiese. O
dei cortei di rom che
abbandonano i pollai che amavano un tempo per abbandonarsi a nuove rapine. O
anche intere
periferie di grattacieli di cemento che sarebbero i feudi della criminalità e di
una violento
fondamentalismo religioso.
Tutto un
universo di paure oscure, di odi e di pregiudizi immemorabili risorge così sotto
i nostri
occhi. Con lo stesso seguito di falsi rimedi, si dispiegano impressionanti
unità di polizia e di
carabinieri per “ristabilire” la legge in luoghi che chiedono in primo luogo
maggiore umanità. Non
si brandisce più solo la giustizia contro gli agitatori, ma li si minaccia
ulteriormente con una
pseudo-morte civile, con la decadenza della nazionalità. Si vedono perfino dei
parlamentari e dei
governanti lasciarsi andare al calcolo preventivo delle colpe imputabili a
questo o a quel gruppo
etnico o religioso, come se ciascuna di queste comunità messe in questo modo
alla gogna fosse per
natura votata ad essere l'agente del male e del disordine.
Soprattutto,
si continua a mettere in primo piano le preminenza di una “identità nazionale”
che non
sarebbe un corpus di valori morali, ma una sorta di grazia immanente
riservata ad alcuni buonii ndividui. È questa identità vaga che sottintende un
discorso di sicurezza fondato su paure
irrazionali e su un sentimento di continua preoccupazione, di fronte ad una
sorta di generalizzazione
immaginata della violenza e della trasgressione delle leggi.
Questi comportamenti hanno qualcosa di derisorio e di tragico. Tutto
avviene come se, di fronte alla
mondializzazione degli scambi, all'uniformarsi dei modi di vita su scala
planetaria, alla mescolanza
sociale sempre più pronunciata e alla rimessa in discussione delle credenze e
delle ideologie
tradizionali, la società cercasse di inventare nuovi criteri di
differenziazione.
Tali criteri
vorrebbero legittimare de facto delle situazioni dove l'appartenenza
etnica o religiosa permette di classificare
gli esseri umani in “buoni” e in “cattivi”, definendo il loro posto nella scala
sociale.
Reazione primaria alla improvvisa accelerazione della Storia? In pochi decenni,
dalla fine della
Seconda Guerra mondiale, il mondo è cambiato più di quanto non l'abbia fatto
dall'Antichità fino
alla rivoluzione industriale. Le nostre società sono diventate più che mai
urbane, comportando la
diluizione dei modi di vita e delle credenze specifiche di vari ambienti. La
scomparsa di forti
impedimenti alla libera circolazione delle persone e dei beni si è tradotta in
prodigiosi flussi
migratori dal Sud verso il Nord, e all'interno stesso del Nord sviluppato.
Questi flussi
hanno favorito l'emergere di società multietniche e multiconfessionali, divenute
la norma, e il futuro.
Il livello di vita globalmente più elevato e lo sviluppo di nuove tecnologie
hanno trasformato il
nostro ambiente e il nostro rapporto con il mondo, aumentando il numero degli
esclusi, incapaci, per
diverse ragioni, ad adattarsi a così rapidi sconvolgimenti, confinandoli nella
loro miseria che li
obbliga a “barcamenarsi” per sopravvivere, e nel ripiegamento all'interno delle
comunità di
provenienza, talvolta difensivo e aggressivo. E allora si inventa, a mo' di
fallaci protezioni, la paura
dell'altro e la volontà di distinguersi da lui ad ogni costo con diversi mezzi.
Con, come corollario, il
ritorno in forze della xenofobia, del razzismo e dell'intolleranza di fronte a
tutto ciò che è diverso,
quindi minaccioso.
Tutto
avviene come se la xenofobia e il rifiuto dell'altro fossero l'unico
linguaggio comune a tutte le aree geografiche e culturali, come mostrano tanti
avvenimenti che si
manifestano simultaneamente ai quattro angoli del mondo.
Non fa eccezione alla regola neppure la Francia, che vorrebbe svolgere il ruolo
di laboratorio
sperimentale di questo nuovo sfruttamento contestabile dell'alterità e
dell'identità. Di fronte alle
minacce che ci vengono brandite (etniche, culturali e religiose), di fronte alle
derive di certi
governanti, dovremmo invece dare il benvenuto (e non il biasimo) a coloro che
consensualmente
nelle ONG e nei media alzano la loro voce per costruire un baluardo contro il
ritorno dei vecchi odi.
Queste voci, la cui sola religione è il primato dell'individuo sul gruppo, le
preminenza dell'umano
sul gioco politico, potrebbero costituire un'identità abbastanza forte per
bloccare la cancrena degli
animi.
René Guitton* in “La Croix”, quotidiano cattolico francese, 29 settembre 2010
*René Guitton è
editore, autore e socio esperto di Global Expert Finder (un progetto
dell'Alleanza
delle civiltà dell'ONU)