Se l’immigrato non ha diritti

Il botta e risposta tra Bossi e Fini ha se non altro il pregio di aver chiarito una volta per tutte la posizione del primo sui diritti degli immigrati: non devono averne nessuno, neppure quelli umani, quelli sanciti dalla dichiarazione universale dei diritti dell´uomo. Non si tratta solo di rifiutare loro il diritto di voto, anche solo a livello amministrativo, anche quando siano da molti anni in Italia, in modo regolare, paghino le tasse, mandino i propri figli a scuola e così via. Un rifiuto discutibile, su cui anche negli altri paesi esistono posizioni e soluzioni diverse, ma comunque limitato ad un livello particolare dei diritti.
È l´idea dell´immigrato (non comunitario) come soggetto di diritti di base nel nostro paese che sembra messa in discussione dal leader della Lega. Secondo Bossi, infatti, «gli immigrati hanno diritti sì, ma solo a casa loro, dove sono cittadini. Da noi sono i nostri ad avere diritti». Sembra di essere tornati ad un´epoca in cui lo straniero è un paria in preda all´arbitrio del paese i cui confini ha incautamente attraversato, una persona verso cui non si riconoscono neppure i doveri minimi di ospitalità, di cui si può accogliere e utilizzare eventualmente il contributo (il lavoro, le tasse), ma senza avere alcun dovere di reciprocità. Neppure un denizen, un "cittadino parziale", con diritti civili e sociali, ma non politici.

Da questa concezione dei diritti umani come collegati alla cittadinanza nazionale, e non al riconoscimento della appartenenza comune alla società umana, discende una politica dei respingimenti che non tiene in alcun conto le condizioni cui si rimandano i respinti, in particolare della possibilità che siano in fuga da pericoli per la loro vita o per la loro libertà. Il diritto d´asilo era riconosciuto anche in epoche precedenti le dichiarazioni e gli accordi internazionali sui diritti dell´uomo. Negli ultimi mesi esso sembra invece diventato un ricordo nelle acque del Mediterraneo. E anche quando non è in questione il diritto d´asilo, fa comodo far finta di ignorare che cosa aspetta i respinti una volta "riaccolti" in Libia. Gli accordi con quel paese sono stati fatti sui modi del respingimento, non sui diritti minimi dei respinti. E l´introduzione del reato di clandestinità ha esposto migliaia di persone ai ricatti di chiunque, oltre che alla negazione di diritti fondamentali come le cure se ammalati, l´istruzione e persino lo status civile di "esistente in vita".
Ma da quella visione restrittiva dei diritti umani discendono anche le tante piccole e grandi vessazioni cui sono sottoposti gli immigrati non comunitari, anche quando regolari: esclusione da alcune misure di politica sociale (ad esempio l´assegno di maternità per le donne a basso reddito che non hanno diritto all´indennità di maternità, l´assegno per il terzo figlio per le famiglie numerose a basso reddito, in alcuni casi l´accesso alla abitazione di edilizia popolare). Discende anche la negazione di un diritto civile fondamentale nelle società democratiche: il diritto a manifestare il proprio credo religioso e ad avere propri dignitosi luoghi di culto. Esso in troppe delle nostre città è violato con varie scuse per gli aderenti alla religione islamica. Persino indossare il velo islamico (non il burqua totale) può essere considerato da qualche amministratore come illegittimo. In Francia, dove, a mio parere sbagliando, in nome della laicità dello stato lo hanno proibito nei luoghi pubblici come la scuola, hanno esteso la stessa proibizione ad ogni altro visibile segno di appartenenza religiosa – dalla kippà ebraica al velo delle suore cattoliche e la tonaca dei preti. In Italia invece la Lega, e non solo la Lega, vorrebbero moltiplicare e imporre i segni della religione cattolica nei luoghi pubblici, e non hanno nessun problema (anzi) a finanziare la scuola cattolica. Ma contemporaneamente negano ogni valore e dignità alla appartenenza islamica comunque si manifesti. L´evocazione del sospetto del terrorismo copre in realtà un radicale rifiuto del diverso.
L´immigrazione pone certamente problemi ad ogni stato nazionale democratico. Una democrazia, per potersi esercitare, ha bisogno di confini e non può lasciare che i propri confini siano impunemente modificati. Per questo distingue, entro il proprio territorio, tra coloro che sono pienamente cittadini (e quindi anche corpo elettorale) e coloro che invece non hanno diritti politici ma solo civili e sociali. E cerca anche un compromesso tra il dovere dell´accoglienza e il diritto a controllare i propri confini. Si tratta, come ha ricordato Seyla Benhabib in un denso piccolo volume pubblicato dal Mulino (Cittadini globali, 2008), del "paradosso della sovranità democratica". Ma la posizione della Lega, sostenuta di fatto anche dal governo, sembra ignorare questo paradosso e i doveri di mediazione che esso comporta. Anziché disarticolare i diversi livelli di diritti, li schiaccia in uno solo, da cui fa dipendere tutti gli altri. Negando quello, nega automaticamente anche gli altri.

Chiara Saraceno     Repubblica 17.9.09

 

 

Il vestito del razzismo

Come si veste un italiano? Me lo sono chiesto dopo essere stata attaccata al Festival di Mantova da un signore del pubblico.

È stato durante la tavola rotonda nell’ambito delle giornate dedicate  all’Africa. L’incontro metteva insieme tre scrittori diversi ma con tratti in comune. Chikwa Unigwe
è olandese di origine nigeriana, Jadelin Mabiala Gangbo è italiano di origine congolese, Najat el
Hachmicatalana di origine marocchina, io italiana di origine somala e Paola napoletana trapiantata a
Roma.
Si è parlato di identità multiple, di lingua madre e lingue matrigne, di percorsi, di viaggi, di
razzismo, di meticciato. 279 persone in sala hanno applaudito. Poi è arrivato il microfono al signore
che mi ha detto che io gli avevo dato un pugno nello stomaco parlando di razzismo istituzionale.
Inoltre ha detto «lei si esprime bene nella nostra lingua,ma si vede che non è ancora bene integrata.
Si veste ancora strana come al suo paese di origine».
Ho risposto con educazione, ho illustrato la situazione italiana fatta di leggi razziali, respingimenti e
cittadinanza che esclude. Gli ho anche detto che critico il mio paese, MIO, perché lo amo. Sul
vestiario non ho speso una parola. La sera in albergo mi sono guardata allo specchio. Avevo delle
camper ai piedi, una gonna verde, un corpetto con le perline, i miei braccialetti colorati, orecchini a
forma di dado e uno scialle viola per coprire le spalle. Non mi sembravo “etnica”. Ero solo colorata.
Ma io sono italiana anche quando indosso l’abito tradizionale somalo, il dirah. Cosa voleva dire
quel signore? La lega introdurrà una divisa per tutti gli italiani? Ho pensato alla stella cucita
addosso agli ebrei o al divieto della Tv birmana di usare il giallo perché è il colore dei sostenitori di
Aung San Suu Kii. E ho avuto un brivido.

Igiaba Scego    l'Unità 16 settembre 2009