Se l'Ulivo perde la bussola della
laicità
Quello
che segue è il testo della lettera che il vicepresidente del Senato ha inviato
ieri alle senatrici e ai senatori del gruppo dell'Ulivo e ai capigruppo
dell'Unione.
Cari colleghi e care colleghe, capisco bene che in queste
settimane la nostra attenzione prevalente dovrà essere volta alle iniziative che
il governo assumerà in particolare sulla crisi grave della finanza pubblica e
sul Dpef, così come sull'aggravamento della crisi mediorientale e più ancora
sulla drammatica situazione irachena che sollecita il rientro del nostro
contingente militare. Così come non mi sfugge che avremo bisogno di un più ampio
confronto politico tra di noi, che purtroppo sinora è mancato. Vi scrivo
tuttavia per manifestarvi la mia preoccupazione per i toni che sta assumendo il
confronto anche all'interno dell'Ulivo su alcuni temi eticamente sensibili.
E' evidente che la legittimità delle diverse opinioni
espresse rischia di essere sopraffatta dalla radicalità delle argomentazioni
usate. Esse possono minare quella coesione politica dell'Ulivo che ritengo vada
preservata come un bene comune, non solo nostro, ma di tutta l'Unione. Penso che
il confronto costruttivo, il dialogo aperto, la ricerca paziente e lo scambio
continuo debbano costituire prassi costante del nostro agire su ogni tema
politico e ideale. Anche il più difficile.
Vedo molto presente in questo dibattito i segni di un
arretramento politico e culturale.
La mia preoccupazione va però oltre. Ritengo molto
pericoloso per una comunità politica mettere in discussione un valore fondante
della nostra democrazia come quello della laicità. A Oriente, e purtroppo in
alcuni casi anche a Occidente, esso si presenta come un punto critico delle
nostre democrazie che vivono una fase in cui le Chiese tendono ad assumere una
ingerenza, a volte pressante, nella sfera delle istituzioni pubbliche.
Mi preme sottolineare che chi rappresenta il popolo sedendo
in uno dei due rami del parlamento debba decidere e agire sempre in nome
dell'interesse generale del Paese, e dovrebbe tendere a rappresentarlo nella sua
complessità. Noi siamo chiamati a svolgere un compito di guida della nostra
comunità nazionale e nel momento stesso in cui esercitiamo questa funzione
abbiamo innanzitutto il dovere politico di rispettare fino in fondo la lettera e
lo spirito della nostra Carta costituzionale.
Uno spirito incentrato sull'affermazione del principio di
convivenza tra le diverse confessioni religiose pur nel riconoscimento implicito
all'articolo 7 della Costituzione che riconosce il ruolo peculiare che quella
cattolica ha nel nostro paese. Ma non possiamo dimenticare mai che nella
medesima Costituzione c'è pieno riconoscimento delle altre confessioni e
ovviamente anche del pensiero e della coscienza di chi non abbraccia alcuna
confessione. In sostanza non mi pare che si possa ritenere esista, o possa
esistere, nel nostro paese una sorta di morale unica «nazionale».
Sono fermamente convinto, all'opposto, che si debba
affermare esplicitamente la libertà e l'autonomia delle idee e della politica da
ogni forzatura che vorrebbe imporre l'esistenza di un codice etico o di una
morale superiore ad altri.
Non è qui in discussione il diritto della Chiesa ad
esercitare la sua missione e ancor meno, ovviamente, il suo diritto alla parola,
come a volte si sente inopinatamente dire. Al contrario si capiscono bene -
nella crisi di civiltà e a volte di convivenza civile che investe la società
italiana e la stessa famiglia - le preoccupazioni della Chiesa per le barbarie
che spesso travolgono il nostro tessuto sociale, l'oscurantismo consumistico
delle relazioni umane, il diffondersi di una povertà immateriale, insieme alla
perdita del senso di una missione che una politica sempre più arida sembra aver
smarrito.
Il punto, almeno per me, è un altro. Io vedo - e non da
oggi - messa in discussione quel valore fondante di ogni democrazia che è il
principio di laicità. Laicità non solo come fonte irrinunciabile di libertà, e
di libertà di coscienza, ma anche come non accettazione di alcuna verità
rivelata quando è intesa come fondamento di uno stato, laicità come uso aperto
della ragione critica, come distinzione tra politica e religione, come
separazione del diritto dalla morale, come garanzia a tutti della piena libertà
di culto. In altre parole, penso alla laicità come neutralità dello stato
rispetto ad ogni credenza, e come indipendenza delle istituzioni.
Ciò è tanto più importante in un paese come l'Italia che si
avvia a vivere anni di profonde trasformazioni nelle quali la custodia gelosa
della identità storico culturale non può essere confusa con una chiusura o
peggio un rifiuto di quella convivenza multietnica e multireligiosa che ci
piaccia o no, segnerà, e molto, i decenni futuri.
D'altra parte i diritti civili, nelle società moderne e
cosmopolite - composte cioè da gruppi e strati che ai diversi livelli della
scala sociale si esprimono attraverso etnie, lingue, culture, religioni molto
diverse tra loro -, pretendono la loro affermazione anche rompendo tabù sinora
inviolabili del nostro agire e del nostro modo di pensare.
Allo stesso modo le nuove frontiere della ricerca
scientifica spingono in avanti - non indietro - il pensiero umano sulla nozione
etica, ad esempio sulla donazione e sul possesso della vita, sul principio di
autodeterminazione, sulla stessa sofferenza umana nella nascita e nella morte.
La procreazione, la famiglia, la scuola rischiano dunque di
trasformarsi in un campo di battaglia ideologica o peggio di una guerra tra
religioni o visioni di vita.
Questi temi rilevantissimi e delicatissimi sempre più
investono la politica e le istituzioni democratiche che sono chiamate a
decisioni e scelte di legge. Vanno perciò assunti come una grande occasione e
opportunità che ci è offerta per misurarci con le radici di una crisi, anche
morale, che sta rischiando di far smarrire anche alla politica il fondamento del
suo compito. Senza affermare e praticare il principio di laicità, ritengo
pertanto che sarà molto difficile legiferare su temi eticamente sensibili come
la ricerca sugli embrioni, o sul riconoscimento giuridico delle coppie di fatto,
o altri ancora.
Questa occasione sarà resa vana e sprecata se essa sarà
intesa come imposizione di un proprio esclusivo punto di vista. Se ciò avvenisse
non solo si ritarderebbe e si renderebbe più arduo il cammino dell'Ulivo, ma
cosa ben più rilevante, si colpirebbe uno dei principi cardine del nostro
ordinamento.
Spero vivamente che ciò non avvenga.
Gavino Angius Il manifesto 14/06/2006