Se il papa ripassasse Galileo


Caro direttore,
il 1° e il 2 dicembre il Papa ha tenuto banco su giornali e tg: dapprima con la nuova enciclica Spe Salvi, poi con due interventi, a un Forum delle Organizzazioni Non Governative Cattoliche e ai fedeli in piazza San Pietro per l’Angelus. Ripetendo, come si addice al massimo rappresentante della più antica e immutabile istituzione governativa mondiale, le stesse parole che lui e i predecessori vanno ripetendo da secoli: in particolare, attaccando la scienza e la democrazia, cioè le vere radici dell’Europa e dell’Occidente.

Cominciamo dall’enciclica sulla speranza e la fede, che il suo autore sintetizza così: «Il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino (...). L’uomo ha, nel succedersi dei giorni, molte speranze - più piccole o più grandi - diverse nei periodi della sua vita. Quando però queste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era in realtà il tutto. Si rende evidente che l’uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre. Si rende evidente che può bastargli solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere».

Ma queste parole, che si presentano come il messaggio di speranza di un saggio, si rivelano nella realtà un appello all’illusione. Il Papa si accorge che non ha senso che viviamo la vita rivolti al domani, alienando il presente a un raggiungimento futuro dell’amore, del possesso, della carriera e del successo. Non propone però, come i sapienti d’ogni tempo, dai filosofi stoici ai monaci buddisti, una tranquilla accettazione dell’oggi e una serena liberazione dal desiderio. Piuttosto, azzarda un disperato rilancio che sostituisce una posta finita materiale, con un’infinita immateriale: casca dalla padella delle lusinghe dell’aldiqua reale, nella brace dell’attrazione di un aldilà immaginario. Il riferimento al buddismo non è pura provocazione. Se il Papa conoscesse un po’ meglio questa «religione» ben più saggia e umanista della sua, scoprirebbe che ha anche anticipato di due millenni uno dei problemi che sembrano assillarlo nell’enciclica: quello relativo alla possibilità di salvezza individuale o collettiva.

Storia delle religioni a parte, è difficile dire quanto il Papa conosca quella della scienza. Nell’enciclica si limita a citare Bacone, un pensatore venuto prima di qualunque teoria e pratica scientifica significativa: il che sarebbe come se uno pretendesse di criticare il Cristianesimo sulla base dei pronunciamenti di uno dei profeti del Vecchio Testamento. In ogni caso, almeno un episodio della storia della scienza Benedetto XVI dovrebbe conoscerlo, quello del processo a Galileo: se non altro, perché ha diretto per 25 anni l’organo che l’ha condannato, quella Congregazione per la Dottrina della Fede che mantiene una continuità con il Sant’Uffizio. E dovrebbe dunque sapere che la causa di quel processo fu l’irritazione di Urbano VIII nel veder messa alla berlina la propria «mirabile e angelica dottrina»: che la scienza fosse ipotetica, e non assoluta. Ovvero, il relativismo, che tanto assilla Benedetto XVI, e che lui imputa in particolare agli scienziati. Quanto Galileo concordasse con quella dottrina, e cioè per niente, è dimostrato dal fatto che nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo la fece difendere da un sempliciotto chiamato Simplicio: per questo il Papa s’infuriò. La stessa dottrina era stata enunciata quasi un secolo prima, ma solo per pararsi da possibili attacchi della Chiesa, da colui che scrisse la prefazione al libro di Copernico: quell’Osiander che Giordano Bruno chiamò «asino ignorante e presuntuoso». Da allora, in accordo con Bruno e Galileo, nessuno scienziato ha mai pensato che le verità scientifiche siano relative: al contrario, tutti sanno che esse sono assolute e definitive, nell’ambito della propria approssimazione, benché risultino spesso passibili di ulteriori miglioramenti.

Nell’Angelus di domenica il Papa proclama che «la scienza contribuisce molto al bene dell’umanità, ma non è in grado di redimerla», e ha ragione: la scienza non pensa che l’umanità sia da redimere, bensì solo da studiare, capire e servire. E benché sia vero, come dice l’enciclica, che la tecnologia (non la scienza) è andata «dalla fionda alla megabomba», aprendo «possibilità abissali di male», il Papa non può fingere di dimenticare che spesso è stata proprio la sua religione a realizzare tali possibilità nella storia. Nell’incontro con le Ogn cattoliche Benedetto XVI ha poi attaccato «una concezione del diritto e della politica in cui conta solo il consenso tra gli stati»: il principio fondamentale della convivenza internazionale e della democrazia! Il portavoce del Palazzo di Vetro, Farhan Haq, gli ha ricordato che l’Onu si fonda sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: spesso si dimentica che il Vaticano non l’ha mai firmata, perché non è disposto a permettere la libertà religiosa entro le sue mura, e che per questo non può essere membro dell’Onu, ma solo osservatore. È dunque verissimo che «l’uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre»: ma non oltre la democrazia e la ragione, bensì oltre l’assolutismo ideologico e l’irrazionalismo filosofico di cui la Chiesa in generale, e questo Papa in particolare, sono le voci più udibili e amplificate. Quanto alla scienza, Santità, si informi, e dopo ci informi: allora le sue parole non suoneranno come quelle di Urbano VIII, che Galileo non poté fare a meno di mettere alla berlina.

 

Piergiorgio Odifreddi       La Stampa 5.12.07