Se il mondo perde
il senso del bene comune
Pochi giorni fa l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una
risoluzione che
riconosce l'accesso all'acqua come diritto fondamentale di ogni persona. L'anno
scorso il
Parlamento europeo ha parlato di un diritto fondamentale di accesso ad Internet.
Apparentemente
lontane, queste due importanti prese di posizione di grandi istituzioni
internazionali si muovono
sullo stesso terreno, quello dei beni comuni, attribuiscono il rango di
diritti fondamentali all'accesso
di tutti a beni essenziali per la sopravvivenza (l'acqua) e per garantire
eguaglianza e libero sviluppo
della personalità (la conoscenza).
Nell'ottobre del 1847, quattro mesi prima della pubblicazione
del Manifesto dei comunisti, Alexis
de Tocqueville gettava uno sguardo presago sul futuro, e scriveva: «Ben
presto la lotta politica si
svolgerà tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono: il grande campo
di battaglia sarà la
proprietà». Quella lotta è continuata ininterrotta e il campo di battaglia,
che per Tocqueville era
sostanzialmente quello della proprietà terriera, si è progressivamente dilatato.
Oggi sono appunto i
beni comuni – dall'acqua all'aria, alla conoscenza, ai patrimoni culturali e
ambientali – al centro di
un conflitto davvero planetario, di cui ci parlano le cronache,
confermandone la natura direttamente
politica, e che non si lascia racchiudere nello schema tradizionale del rapporto
tra proprietà pubblica
e proprietà privata.
Tra India e Pakistan è in corso una guerra dell'acqua; in
Italia la questione dell'acqua è divenuta
ineludibile dopo che un milione e quattrocentomila persone hanno firmato la
richiesta di un
referendum; il parlamento islandese ha deciso che Internet debba essere il luogo
di una libertà
totale, uno sterminato spazio comune dove sia legittimo rendere pubblici anche
documenti coperti
dal segreto. Il tema dei beni comuni segna davvero il nostro tempo, e non
può essere affrontato
senza una riflessione culturale e politica.
Un misero esempio italiano di questi giorni ci mostra l'inadeguatezza degli
schemi tradizionali e i
rischi che si corrono. Da poco dichiarate dall'Unesco patrimonio dell'umanità,
le Dolomiti sono
oggetto di una mortificante contabilità, che sarebbe ridicola se dietro di essa
non si scorgesse lo
sciagurato "federalismo demaniale" che, trasferendo agli enti locali beni
importantissimi, mette
questi beni nella condizione di poter essere più agevolmente destinati a usi
mercantili o privatizzati
o comunque destinati "a far quadrare i conti". E proprio questa eventualità
mostra la debolezza
dell'argomento, usato per l'acqua, secondo il quale basta che un bene rimanga in
mano a un soggetto pubblico perché venga salvaguardato.
Non è questione di etichette. È la natura del bene a
dover
essere presa in considerazione, la sua attitudine a soddisfare bisogni
collettivi e a rendere possibile
l'attuazione di diritti fondamentali. I beni comuni sono "a titolarità
diffusa", appartengono a tutti e a
nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare
pretese esclusive.
Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la
dimensione del
futuro, e quindi devono essere governati anche nell'interesse delle generazioni
che verranno. In
questo senso sono davvero "patrimonio dell'umanità".
Nel pensare il mondo, e le sue dinamiche, non possiamo sottrarci alla
"ragionevole follia" dei beni
comuni. Questo ossimoro, che dà il titolo a un bel libro di Franco Cassano,
rivela un compito
propriamente politico, perché mette in evidenza il nesso che si è ormai
stabilito tra beni comuni e
diritti del cittadino. Un bene come l'acqua non può essere considerato una
merce che deve produrre
profitto. E la conoscenza non può essere oggetto di "chiusure" proprietarie,
ripetendo nel tempo
nostro la vicenda che, tra Seicento e Settecento, in Inghilterra portò a
recintare le terre coltivabili,
sottraendole al godimento comune e affidandole a singoli proprietari.
Per giustificare quella vicenda lontana si è usato l'argomento
della crescita della produttività della terra. Ma oggi il nuovo,
sterminato territorio comune, rappresentato dalla conoscenza raggiungibile
attraverso Internet, non
può divenire l'oggetto di uno smisurato desiderio che vuole trasformarlo da
risorsa illimitata in
risorsa scarsa, con chiusure progressive, consentendo l'accesso solo a chi è
disposto ed è in
condizione di pagare. La conoscenza da bene comune a merce globale?
Così i beni comuni ci parlano dell'irriducibilità del mondo alla logica
del mercato, indicano un
limite, illuminano un aspetto nuovo della sostenibilità: che non è solo
quella imposta dai rischi del
consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella
legata alla necessità di
contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte
dall'innovazione scientifica e
tecnologica. Si avvererebbe altrimenti la profezia secondo la quale "la
tecnologia apre le porte, il
capitale le chiude". E, se tutto deve rispondere esclusivamente alla razionalità
economica, l'effetto
ben può essere quello di "un'erosione delle basi morali della società", come ha
scritto Carlo Donolo.
In questo orizzonte più largo compaiono parole scomparse o neglette.
Il bene comune, di cui s'erano perdute le tracce nella furia
dei particolarismi e nell'estrema individualizzazione degli interessi,
s'incarna nella pluralità dei beni comuni. Poiché questi beni si sottraggono
alla logica dell'uso
esclusivo e, al contrario, rendono evidente che la loro caratteristica è quella
della condivisione, si
manifesta con nuova forza il legame sociale, la possibilità di iniziative
collettive di cui Internet
fornisce continue testimonianze. Il futuro, cancellato dallo sguardo corto
del breve periodo, ci è
imposto dalla necessità di garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo.
Ritorna, in forme che
lo rendono ineludibile, il tema dell'eguaglianza, perché i beni comuni non
tollerano le
discriminazioni nell'accesso se non a prezzo di una drammatica caduta in
divisioni che disegnano
davvero una società castale, dove ritorna la cittadinanza censitaria, visto che
beni fondamentali per
la vita, come la stessa salute, sono più o meno accessibili a seconda delle
disponibilità finanziarie di
ciascuno. Intorno ai beni comuni si propone così la questione della
democrazia e della dotazione di
diritti d'ogni persona.
Spostando lo sguardo sui beni comuni, dunque, non siamo
soltanto obbligati a misurarci con
problemi interamente nuovi. Dobbiamo sottoporre a revisione critica principi e
categorie del
passato. Dobbiamo rileggere in un contesto così mutato la stessa Costituzione,
quando stabilisce che
la proprietà dev'essere resa "accessibile a tutti" e quando, nell'articolo 43,
indica una sorta di terza
via tra proprietà pubblica e privata. Qui è l'ineludibile agenda civile e
politica non di un solo paese,
ma di tutti coloro che vogliono affrontare con consapevolezza e cultura adeguate
le questioni
concrete che ci circondano.
Stefano Rodotà la Repubblica 10
agosto 2010