Se i laici porgono l'altra guancia


NELL'ATTESA sempre più speranzosa ma anche tremula d'avere notizie definitivamente positive sul nostro Daniele Mastrogiacomo, temevo che mi toccasse in sorte di occuparmi oggi per obbligo di attualità dell'immonda suburra denominata Vallettopoli. Argomento nient'affatto banale che peraltro accompagna la nostra vita di relazione - sia pure con forme diverse ma analoga sostanza, da almeno duemilacinquecento anni, ché tanti ne sono passati dalla morte di Socrate ai giorni nostri.

Dico la verità: passare un pomeriggio a riflettere di simili bassezze e futilità mi sembrava al limite della sopportazione che il nostro mestiere di giornalisti a volte ci impone, a meno di non essere un Platone o un Senofonte e di avere come oggetto di osservazione colui che fondò la filosofia greca, la sua metafisica, la sua morale e, partendo dall'accusa di corrompere i giovani che gli veniva contestata per ragioni più politiche che etiche, riuscì a lasciare un segno indelebile sul modo di affrontare la morte pur di obbedire ad una legge ingiusta e ad una fattispecie non provata. Esempio fondante della civiltà occidentale allora appena al suo inizio e impensabile oggidì, dove quasi tutto è mediocre e inteso all'utile proprio e al danno altrui.

Dicevo dunque dei miei disagi di commentatore di professione quando per mia fortuna è venuto a trarmi di imbarazzo Giuseppe De Rita con una sua argomentata lettera pubblicata ieri sul nostro giornale dal titolo "Noi cattolici e i falsi profeti della modernità", nella quale si rivolge direttamente a me per un mio intervento "laico" di domenica scorsa, oltreché agli amici Gustavo Zagrebelsky e Gad Lerner che pure avevano affrontato il tema da diversi punti di vista.

 

Conosco De Rita da una vita e ne stimo l'intelligenza e la finezza intellettuale. Ne stimo meno l'arroganza di ritenersi quasi sempre nel vero, non tanto nelle questioni attinenti alla fede delle quali si è occupato di rado, quanto in quelle che concernono la sua professione di sociologo nelle quali ha preso talvolta qualche cantonata, come quella d'aver inventato lo slogan "piccolo è bello" con il quale ci ha trastullato per circa vent'anni individuando un fenomeno reale ma dandogli valore positivo mentre ne aveva soprattutto uno negativo derivante dal familismo italiano e dal nanismo aziendale entro le cui maglie tuttora ci dibattiamo.

Non toglie che le capacità intellettuali di De Rita siano state di eccezionale perspicuità e che il suo annuale rapporto Censis abbia fornito alla pubblica opinione qualificata le tavole di giudizio sulle quali valutare i risultati economici, l'affermarsi di nuove costumanze nel bene e nel male e insomma l'evolversi (o l'involversi) della nostra società alla luce d'un criterio morale spesso implicito ma sempre presente, che riscalda le sue conclusioni statistiche e ne fa strumento di educazione civile.

Dunque risponderei qui alle reprimende e alle domande dell'amico De Rita non senza osservare l'immotivata brutalità del titolo del suo articolo. So bene che di solito i titoli non li fa l'autore ma il redattore titolista, il quale tuttavia in questo caso non ha responsabilità in quanto si è limitato a dar voce al testo. Dunque "Noi cattolici e i falsi profeti della morale". Starei molto attento, caro De Rita, a far proprio un concetto così azzardato da parte di chi per oltre un secolo non volle arrendersi ai principi della moderna astronomia sol perché avrebbero messo in questione la centralità della nostra specie nonché la leggenda della creazione e - scendendo giù per li rami - avrebbe forgiato una teoria fasulla del libero arbitrio e su di essa eretto il predominio assoluto dell'intermediazione e dell'interpretazione del rapporto tra Dio e l'uomo, affidato in via esclusiva alla gerarchia ecclesiastica: esempio unico rispetto a tutte le altre confessioni cristiane e a tutte le altre religioni monoteistiche dove non esiste un clero che abbia il potere di sciogliere e di legare ("Ciò che tu, Pietro, legherai sarà legato per sempre e ciò che scioglierai sarà sciolto").

Alla luce di questa aberrante teoria potrei ben titolare "Noi laici e i falsi profeti della religione", ma me ne guardo bene; ho troppo rispetto per la predicazione di Gesù di Nazareth e sento così profondamente dentro di me il suo insegnamento di umanità e di amor per profittare degli errori e dell'arroganza di molti tra i suoi seguaci.

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Andiamo al sodo. Mi chiede De Rita: in otto righe hai elencato ben nove filosofi, pensatori, scienziati con i quali la Chiesa sarebbe in rotta di collisione rifiutando per conseguenza in blocco l'intera modernità. È esatto - tu mi domandi - questo giudizio?

A me par di sì e non perché lo dico io ma perché è la storia delle idee e dei fatti a darcene contezza. Naturalmente avrei potuto (dovuto?) far seguire ad ogni nome citato una breve scheda illustrativa ma ho pensato che fosse inutile: i lettori di "Repubblica" conoscono bene il pensiero degli illuministi, di Spinosa, di Kant, di Einstein, per aver bisogno di un "bignamino" rammemorativo.

Del resto le otto righe avrebbero potuto allungarsi di molto e altrettanto i nomi citati se avessi avuto lo scrupolo della completezza anziché quello dell'esemplificazione. Mi è parso inutile - ma forse ho sbagliato - citare la sciagurata sorte di Tommaso Campanella e quella sciaguratissima di Giordano Bruno, non soltanto torturati nella persona ma cancellati nel pensiero. Né ho citato i 27mila morti nell'efferata notte di San Bartolomeo o i milioni di contadini periti nella guerra dei trent'anni scatenata dalla lotta delle religioni, né i massacri delle crociate e della Reconquista, né la segregazione degli ebrei della diaspora, né le stragi di Sassonia perpetrate da Carlo Magno per mandato del Papa. Non ho citato Fichte e venendo a tempi più vicini a noi non ho fatto menzione di Jaspers, Bertrand Russel, Heidegger e infiniti altri pensatori che nel loro complesso hanno costituito un immenso e fertile deposito di libero pensiero.

De Rita sostiene che la Chiesa non ha rotto con quel deposito di modernità, ma soltanto con alcune parti di esso. Mi piacerebbe saperne di più. Forse ne sarei confortato.

Certo la Chiesa è maestra nel sostenere che la fede sia sempre d'accordo con la ragione e che la fede e la ragione insieme siano due facce della stessa medaglia purché, come ha notato Severino, sia la ragione a seguire i passi della fede. Ove mai li precedesse arrivando a conclusioni difformi, l'anatema non tarderebbe come non ha mai tardato.

Perfino al proprio interno, quando la gerarchia distrusse anche fisicamente il cristianesimo modernista servendosi del braccio secolare fascista per escluderlo dalle scuole e dalle Università e poi, con papa Wojtyla, quando fece tabula rasa delle teologie tedesca, olandese, sudamericana; quando lasciò solo l'arcivescovo Romero che fu massacrato sull'altare dagli squadroni della morte dei "terratenientes" e quando infine divelse in blocco tutto il gruppo dirigente dell'Ordine dei gesuiti, reo di non essersi allineato alle prescrizioni d'una gerarchia più preoccupata del consenso di massa che della meditazione cristologica e del riscatto sociale.

Se il laicato cattolico è poco sensibile a questi temi non è cosa che ci riguardi, ma come osservatori abbiamo dovere di esprimerci.

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Toccherò ora un altro tema connesso con questo.
Durante il declino dei partiti della prima repubblica e la corruttela diffusa che aveva inquinato le fibre stesse del sistema e principalmente quelle del partito cattolico, non abbiamo ascoltato una sola reprimenda da parte dell'episcopato italiano sullo scempio di moralità pubblica che era sciaguratamente in atto. Così come nulla si è percepito sul paganesimo dilagante nei recessi del potere, nell'uso delle prevaricazioni, nell'ideale della forza, del successo, del denaro che costituiscono gran parte della società di questi anni. Recriminazioni generiche quanto inutili, questo sì; pattuizioni politiche altrettanto.

Gli dèi pagani furono a loro modo una religione civica molto seria. Ma qui non si stabiliscono i criteri d'una religiosità civile bensì si negoziano gli interessi travestendoli da ideali.

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Un'accusa fastidiosamente ritornante imputa ai laici di voler togliere la parola e lo spazio pubblico ai cattolici in genere e alla gerarchia ecclesiastica in particolare.

Anche De Rita indulge a questa leggenda metropolitana, il che mi stupisce assai. Personalmente, in numerosa e prestigiosa compagnia, ho sempre affermato che il Papa e i suoi vescovi hanno piena disponibilità dello spazio pubblico e possono dire ciò che vogliono e come vogliono. Salvo un punto: le pattuizioni dei Trattati lateranensi che come tutti i trattati contengono diritti e doveri per le parti contraenti.

Io sarei felice per la Chiesa se quei Trattati fossero aboliti: ne guadagnerebbe in libertà ed estensione del suo spazio pubblico. Ma non sembra che la Chiesa abbia questa intenzione: non ha più obblighi da osservare e conserva tutti i diritti e i privilegi pattuiti.

Va dunque bene così. Ma pongo ora a De Rita una domanda che ho già formulato tempo fa senza avere alcuna risposta. La domanda è questa: esiste un atto, un comportamento, un documento che possa configurare un'ingerenza da parte della Chiesa nella sovranità dello Stato? Di ingerenze vietate allo Stato dai Trattati del Laterano ce n'è a bizzeffe e lo Stato si è ben guardato dal cadere in fallo. Ma il viceversa qual è? Che cosa non può fare la Chiesa in forza dei Trattati? Stando a quel che vediamo la Chiesa può far tutto. Dunque il Concordato non prevede limiti, è un colabrodo. È possibile configurare un'ingerenza, tanto per sapere? De Rita ci può aiutare? L'arcivescovo Bagnasco può indicare un limite del quale abbiamo del tutto smarrito l'esistenza? O debbono intervenire i pretori e adire la Corte quando un prete in pulpito prescrive ai fedeli come votare? E non temete per lo spazio pubblico: quello ve lo concesse lo Stato italiano fin dal 1871 con la legge delle Guarentigie senza bisogno di alcun Concordato.

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Ma, incalza De Rita, le dotte (bontà sua) elucubrazioni filosofiche dei laici sono lontane le mille miglia dalle tradizioni religiose degli italiani. Perciò non hanno presa. Tutt'al più possono riempire qualche piazza di omosessuali, ma di lì non nasce alcuna classe dirigente e alcun pensiero forte. Perciò non incoraggiate le piazze se volete un disinteressato consiglio.

D'accordo. Le piazze sono comunque minoranze. Recarsi in piazza è un diritto costituzionalmente garantito ma, per il pochissimo che mi riguarda, non ne sento alcuna nostalgia.

Sempre che questa "lontananza" sia reciproca. Pare che milioni di cattolici si preparino a scendere in piazza. Per loro è ammesso e consigliato e per i froci (ma sì, chiamiamoli così) è sconsigliabile? Curioso modo di intendere la democrazia.

L'altro tema è più serio: pensiero elitario contro tradizioni popolari, evidentemente non c'è gara.
Certo che non c'è gara e infatti non esiste laico che si rispetti che si ponga l'ipotesi di estirpare la religione dall'animo non degli italiani ma delle persone ovunque nate e residenti. La ragione è semplice e la ricaverò da una citazione dello "Jacopo Ortis" fatta da monsignor Ravasi in uno degli ultimi numeri dell'"Avvenire": "Io non so perché venni al mondo né come: né cosa sia il mondo né cosa io stesso mi sia".

Questa è la citazione e ricorda uno dei Pensieri di Pascal. Di qui nasce la religione, quale che sia: dalla mancanza di senso e dall'angoscia che ne deriva. La religione è una delle risposte pacificanti. L'altra è la ricerca dell'autonomia della coscienza e del senso come suo proprio fondamento.

Non mi sognerei perciò di irridere il credente che trova il senso costruendo un dio e un processo di salvezza. Allo stesso modo giudico grossolana la tesi di chi contrappone le "elucubrazioni filosofiche" alle tradizioni religiose.

Sì, lo trovo molto grossolano e aggiungo: se siete, voi cattolici, così sicuri del vostro seguito, di che cosa vi preoccupate? Forse avete capito che sotto a molte di quelle tradizioni c'è solo il potere e nient'altro?

Post scriptum. Mi era molto presente una recente dichiarazione della Rosy Bindi in favore d'una Chiesa che pensi di più a Dio e al prossimo e ne ho dato conto in una recente segnalazione giornalistica. Ma poi la Bindi ha fatto retromarcia. Ha detto "meglio un bambino che resti in Africa piuttosto che sia adottato da una coppia omosessuale".
Brutta dichiarazione da parte di chi ha meritatamente contribuito alla stesura del testo di legge sulle coppie di fatto il quale, tra l'altro, non contempla alcuna proposta di adozione da parte di coppie omosessuali.
Poiché la Bindi è donna coerente, qui la coerenza manca del tutto. Tuttavia quella sua dichiarazione è agli atti e non c'è stata alcuna smentita. Poiché la stimo e spesso la lodo pubblicamente mi permetto di reclamare una sua spiegazione.
Mi vengono in mente i "bravi" di Don Rodrigo quando imposero a Don Abbondio che quel matrimonio tra Renzo e Lucia non si doveva fare. Siamo a questo, onorevole Bindi?



 EUGENIO SCALFARI        La Repubblica  18 marzo 2007