Se Dio lo vuole

«Dio non è nel nostro catalogo» (We don't do God), rispose a una domanda sui rapporti tra fede e politica Alistair Campbell, già consigliere personale del premier britannico Tony Blair. La battuta è rimasta famosa. Ma anche inascoltata. Almeno a giudicare dall'intervista che Blair ha concesso ieri al canale televisivo Itv, in cui afferma che per chi - come lui - crede in dio, la decisione di andare in guerra contro l'Iraq fu presa anche nell'alto dei cieli. Fino a ieri, dalla nostra sponda dell'Atlantico dio si era mostrato più discreto che dall'altra, dove più volte il presidente degli Stati uniti George Bush ha `confessato': «È stato dio a dirmi di farla finita col terrore». Quest'intimità col motore immobile non sorprende in un politico come Bush che deve la sua elezione (e rielezione) all'indefettibile sostegno delle falangi dei conservatori cristiani: quasi ogni giorno ricorda ai suoi elettori che se non è più alcolizzato, è perché è «born again», «nato a nuova vita» dall'incontro diretto, personale e salvifico con la divinità.

Già l'indomani dell'11 settembre 2001, non si poteva non essere colpiti dalla simmetria con cui si fronteggiano un integralista islamico e un fondamentalista cristiano che hanno finito per aver bisogno l'uno dell'altro, con gli eccidi di bin Laden che tengono a galla Bush e le torture di Abu Ghraib che procurano volontari ad Al Zarqawi. Perciò lo scontro a cui assistiamo non sarà magari una crociata, ma da più parti ci assorda il grido «Dieu le veult!». Poi ci stupiamo se folle (aizzate) manifestano in Nigeria o in Indonesia contro marginali vignette pubblicate da un piccolo giornale di provincia di un secondario paese occidentale: non è l'effetto farfalla della teoria del caos, per cui il battito di ali di una libellula a Dakar scatena un ciclone a Hong-Kong, ma è l'effetto-dio che di ogni mortale, fallibile bipede terrestre fa un portavoce accreditato dell'essere supremo.

L'uscita di Tony Blair dimostra una volta di più, se mai ce ne fosse stato bisogno, che, con i suoi alias Geova e Allah, Dio ha fatto - alla grande - la sua rentrée nell'arena politica. Si dirà che non era mai del tutto uscito di scena. Ma operava per lo più dietro le quinte: all'epoca la tv era solo agli albori e gli unti del signore non si mettevano uno strato doppio di cerone, né i suoi ministri si sbottonavano la camicia per mostrare magliette imprecanti. Ma oggi dio è dappertutto in politica: a Washington è presente nelle quotidiane preghiere mattutine alla Casa bianca; a Tehran s'interessa da vicino di scelte energetiche e impone la filiera nucleare; a Roma è ospite quasi ogni sera da Bruno Vespa a Porta a Porta; si fa vivo persino attraverso Piero Fassino e Fausto Bertinotti che oggi rivelano di averlo da sempre frequentato. Per non parlare dei veri e propri diktat che abbaia urbi et orbi attraverso il suo vicario in terra.

Si obietterà: la libertà di parola vale per tutti, non si può mica imbavagliare il nostro creatore! Con un problema però: è arduo invocare insieme una missione democratica e un'investitura divina. La democrazia consiste nella legittimità di scelte contrapposte, mentre l'investitura divina delegittima ogni scelta contraria a quella suggerita dal signore: se votate contro di me, mettete dio in minoranza. E chi ha il coraggio di votare contro dio? Chi lo sente poi quello là? Dio ha tante buone qualità ampiamente riportate da Bibbia, Corano e Vangeli, ma una gli manca del tutto: dio non è, non è mai stato, e non potrà mai essere democratico. Non gli piace andare in minoranza. Come a qualcun altro, più vicino e meno celeste.

 

MARCO D'ERAMO     Il manifesto 05/03/2006