Se anche Dio entra in politica
La Chiesa e la democrazia: un relativismo che si vergogna
di se stesso
Contro i teocon.
Un
pamphlet di Michele Martelli accusa la gerarchia ecclesiastica di voler dettare
legge in ogni settore della vita pubblica.
S'intitola Quando Dio entra in politica (Fazi, pp. 228, e 16) il libro in
cui Michele Martelli, studioso di filosofia e docente dell'Università di Urbino,
critica le tendenze clericali che si manifestano nella vita italiana. Il testo
di Giulio Giorello qui pubblicato è la prefazione al volume.
La Chiesa? «Non è democratica, ma sacramentale, dunque gerarchica», scriveva a
suo tempo Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Fede. E oggi, con Joseph ormai
salito al Soglio di Pietro, sotto il nome di Benedetto XVI? Mi pare notevole
merito del volume di Michele Martelli Quando Dio entra in politica il fatto che
l'autore, fin dal primo capitolo, metta a fuoco il nocciolo della questione. «La
fallibilità, l'incertezza, l'errore, l'umile e incessante ricerca della verità,
il dialogo, il dubbio socratico e scettico, l'autocorrezione e l'autocritica»,
si chiede Martelli, sarebbero dunque «estranei a chi la verità definitiva la
possiede in Cristo, di cui è sostituto terreno»? Attenzione a rispondere Sì o No
immediatamente. Una notevole tradizione di pensiero — da Charles Sanders Peirce
a Ernst Mach, per non dire di Karl Popper e Willard Van Orman Quine, pur con le
più diverse sfumature — ha messo in luce come quei tratti di «fallibilismo» (il
termine è di Peirce), ovvero quell'impasto di «conoscenze ed errore» (l'endiade
è di Mach), scandiscono tanto la crescita della scienza moderna quanto
l'articolarsi della democrazia. La tensione principale non si situa allora tra
fede e ragione, tra scienza e religione, tra credenti e non credenti, ma tra chi
fa ricerca — non solo circa «la natura delle cose», poniamo in fisica o in
biologia, ma persino circa la propria «salute spirituale» — con un atteggiamento
che insiste sul carattere fallibile e provvisorio delle proprie conquiste e chi
invece non esita a presentarle come dogmi irrinunciabili, ormai immuni a
qualsiasi spirito critico.
So bene che, se ci si esprime così, si rischia — al solito — di essere tacciati
di «relativismo», il genio maligno dell'Occidente, la cui «dittatura» è stata
autorevolmente denunciata dallo stesso Ratzinger poco prima di essere eletto
Papa. Ma anche qui, cautela: la posta in gioco non è epistemologica (o lo è solo
in parte), ma (soprattutto) politica.
Lo avevano intuito, ai tempi della contrapposizione di Riforma e Controriforma,
ancor prima dei «filosofi naturali» (noi oggi diremmo «scienziati ») quei
teologi insofferenti alla costellazione dei pregiudizi stabiliti, che avevano
rivendicato diritto all'amore e alla tolleranza per le forme di vita (religiosa,
ma non solo) più diverse. Figure come — a metà del Seicento — John Milton, che
aveva dichiarato che «la verità ha più di una faccia», o come John Goodwin, che
aveva sostenuto che reprimere le differenze può rivelarsi la forma più perversa
di «lotta contro Dio». Particolare non trascurabile: si trattava di protestanti
(anche se, assai spesso, devianti rispetto al
mainstream del protestantesimo: eretici nell'eresia, agli occhi di quei
cattolici che avevano dimenticato che eresia vuol dire solamente scelta e che a
sua volta ragionare non è che un sinonimo di scegliere). Karl Popper, in un
bellissimo intervento del lontano 1958, riconosceva quanto debbano le attuali
società aperte e democratiche a questo tipo di protestantesimo. Ma non stiamo
cercando qui delle più o meno fondate «radici»! Il gusto per la disputa, la
pregnanza dell'argomentazione, il valore della competenza tecnica, il
considerare una differenza di opinioni o di stile di vita non un disastro ma
un'occasione sono elementi che possiamo ritrovare nelle più svariate civiltà,
dalla grande cultura sumerica e accadica della Mesopotamia alla Grecia dei
Sofisti e di Socrate, dall'India capace di logiche (al plurale) di estrema
raffinatezza al mondo «arabo- islamico» così attento, prima dell'epoca della sua
chiusura che coincide con la sua decadenza, alla valorizzazione degli
esperimenti intellettuali e morali più disparati… Siamo disposti a sacrificare
tutto questo per la «verità dell'Uno» di cui la Chiesa Cattolica Romana pretende
di avere il monopolio? Michele Martelli ci ripropone un interrogativo che in
passato è più volte emerso nelle tormentate vicende dell'Occidente. Il «ritorno
di Dio nella politica» vuol dire proprio questo. Di mio, non sono così drastico
come alcuni che ritengono di poter liquidare la stessa esperienza del
cattolicesimo come antiscientifica e antidemocratica. Il fatto è che non penso
che le varie tradizioni religiose — e in particolare le diverse denominations
cristiane, e dunque la stessa confessione cattolica — costituiscano delle
«essenze» date una volta per tutte come idee immutabili dell'iperuranio di
Platone. Piuttosto, mi paiono simili a organismi viventi, in continuo mutamento,
soggette quindi sia alla pressione dell'ambiente sia alle decisioni degli
individui che in tali tradizioni si riconoscono. Così, sono disposto a
riconoscere che persino una Chiesa «non democratica, ma sacramentale » possa
evolvere, dando prova nella pratica di quel relativismo di cui in teoria si
vergogna. Dopotutto, il «relativismo» è il contrario dell'«assolutismo » — e
tutto possono essere i dittatori, tranne che dei relativisti! Pensiero debole —
come ci ripetono teocon, teodem e atei devoti, così nostalgici della «forza del
fondamento»? Niente affatto: il relativismo non è una dottrina, ma una scelta
personale e politica per un tipo di struttura in cui ogni idea o forma di vita
abbia il diritto a una difesa pubblica — in questo sta tutto il suo coraggio!
Michele Martelli non risparmia i suoi strali polemici a pretese teoriche e
morali avanzate in nome delle più diverse religioni, pur concentrandosi
soprattutto su quelle che ci vengono dal cattolicesimo romano. Non possiamo che
augurarci che coloro che si sentono colpiti dalla sua vis polemica sappiano
rispondergli con altrettanta decisione sul piano dell'argomentazione.
Di nuovo, questo tipo di conflitto è un'occasione di crescere per tutti «i
litiganti».
Una cosa, però, dev'essere chiara. Mai mai mai saremo disposti a cedere —
in cambio delle nebbiose consolazioni di questa o quella religione — il libero
cielo dell'Illuminismo, quello della tolleranza comprensiva e simpatetica di
John Toland, o dell'appassionata mitezza di Voltaire, o dello «scetticismo
spensierato» di David Hume, o dell'elogio di Immanuel Kant dell'autogoverno di
cui è capace la persona «uscita dallo stato di minorità» in cui i dogmatici di
ogni risma vorrebbero ricacciarla. A scanso di equivoci: questi non sono vincoli
che ci legano al passato, sono premesse che ci indirizzano al futuro.
Giulio Giorello Corriere della Sera 6.9.08