Sconfitto lo stato
etico
Forse i disinvolti e ideologici legislatori, che ci affliggono da anni con la
loro pretesa di imporre
un'etica di Stato, cominceranno a rendersi conto che dovrebbero finalmente
andare a lezione di
Costituzione. La sentenza di ieri, con la quale la Corte costituzionale ha
dichiarato illegittime alcune
delle norme più significative della legge sulla procreazione assistita, conferma
un orientamento già
ben visibile negli ultimi mesi, e che ha fatto nitidamente emergere un insieme
di criteri che
precludono ai legislatori di impadronirsi della vita delle persone. Quando, con
mossa incauta, nel
settembre scorso la maggioranza parlamentare aveva sollevato un conflitto di
attribuzione nei
confronti della magistratura, sostenendo che aveva invaso le competenze del
legislatori con la
sentenza sul caso di Eluana Englaro, i giudici costituzionali l'avevano
rapidamente bacchettata,
dichiarando inammissibile la loro iniziativa. E a fine dicembre, quando le
polemiche su quel caso
erano ancor più infuocate, hanno con forza affermato che l'autodeterminazione
costituisce un diritto
fondamentale della persona. Una linea chiarissima, che rendeva prevedibile la
decisione di ieri.
Ora cadono alcune tra le norme più odiose e fortemente simboliche della legge
40. Quella che
imponeva l'unico e contemporaneo impianto degli embrioni, comunque in numero non
superiore a
tre: viene così battuto un proibizionismo cieco e ingiustificato, che infatti
aveva provocato le
critiche dei medici che operano in questo settore E quella che, sempre in
relazione all'impianto, non
teneva conto della necessità di salvaguardare la salute della donna, violando
così un fondamentale
diritto della persona. E non è vero, come ha frettolosamente osservato qualche
parlamentare del
Popolo della libertà, che la Corte ha comunque salvato altri articoli della
legge, che pure erano stati
impugnati. Su questi articoli, infatti, i giudici non si sono pronunciati per
una ragione procedurale,
perché non riguardavano le questioni trattate nei giudizi in cui l'eccezione di
costituzionalità era
stata sollevata. Sarà, quindi, possibile riproporre quelle eccezioni nella
occasione più opportuna.
È stata così imboccata una strada che ripristina la legalità costituzionale e il
rispetto dei diritti della
persona. E, come ha saggiamente osservato Carlo Flamigni, si creano anche le
condizioni per
arrivare ad un "provvedimento più saggio", ad una riforma della legge 40 che ci
faccia tornare in
sintonia con le legislazioni degli altri paesi e, soprattutto, che disciplini le
tecniche di riproduzione
assistita in modo da renderle il più possibile aderenti alle effettive esigenze
delle donne. Ma, invece
di cogliere l'occasione offerta dalla Corte per avviare una nuova riflessione
comune in una materia
così difficile, la cecità ideologica continua a tenere il campo. Dai lidi della
maggioranza si grida alla
deriva eugenetica, si torna a parlare di attentato alla sovranità del
Parlamento, si riecheggiano i toni
populisti di questi giorni intonando di nuovo la canzone dei giudici che si
sostituiscono alla volontà
del popolo.
Chi ragiona in questo modo (si fa per dire) mostra di ignorare la logica stessa
del controllo di
costituzionalità, finalizzato proprio a garantire che le leggi votate dai
rappresentanti del popolo non
violino i principi e le garanzie che, democraticamente, proprio il popolo si è
dato attraverso
l'Assemblea costituente, e la Costituzione frutto del suo lavoro. Il Parlamento,
dunque, non è sciolto
dal rispetto di questi principi, ma a questi deve sottostare. Nella Corte
costituzionale i cittadini
trovano così non il guardiano di una astratta legalità, ma il garante dei loro
diritti e delle loro libertà.
Garanzia tanto più importante quando si legifera sulla vita, perché il
Parlamento non può
espropriare le persone del potere di prendere in libertà le decisioni più
intime. E non si può dire che
siamo di fronte ad una inattesa prepotenza della Corte. Proprio durante la lunga
discussione
parlamentare sulla legge sulla procreazione assistita molti avevano messo in
guardia contro il
rischio di approvare norme incostituzionali, com'era evidentissimo considerando
proprio il modo in
cui la Corte aveva già affrontato in particolare il tema del diritto alla
salute.
Se torneranno un minimo di ragione e di cultura della legalità, la sentenza di
ieri potrà aiutare anche
nel difficile esame del disegno di legge sul testamento biologico, di cui deve
ora occuparsi la
Camera. Quell'insieme di norme, infatti, è perfino più sgangherato, dal punto di
vista della
costituzionalità, della pur sgangheratissima legge sulla procreazione assistita.
I legislatori, lo ripeto,
apprendano le lezioni di costituzionalità che la Corte, legittimamente,
impartisce.
Stefano Rodotà la Repubblica 2 aprile 2009
Chi vuole
espropriare la nuda vita
In apertura del suo nuovo libro (A chi appartiene la tua vita?, Ponte alle
Grazie, Firenze, pagg. 158 ,
euro 12.50) Paolo Flores d'Arcais sottolinea subito che esso «non era nelle
intenzioni. È stato
imposto dalla violenza delle circostanze». Ma non siamo di fronte ad un "instant
book", legato a una
vicenda di cronaca e destinato ad esaurirsi con essa. Si tratta di una
riflessione che, pur prendendo
direttamente le mosse dalla vicenda di Eluana Englaro, va a fondo sui temi
generali che essa ha
imposto alla discussione pubblica. Un libro tempestivo, dunque, uno strumento
utile per reagire alla
regressione culturale che stiamo vivendo e che produce le aberrazioni
legislative di questi giorni,
ricordandoci che la cattiva politica è sempre figlia della cattiva cultura.
Appartiene a quella
riflessione su una ars moriendi laica, condotta da credenti e non
credenti, che sta cercando di offrire
a tutti gli uomini di buona volontà un terreno di discussione comune, libero da
ogni forma di
ipoteca confessionale o ideologica, e che possa così restituire a tutti e a
ciascuno il rispetto di libertà
e dignità nel tempo in cui la vita finisce.
Il linguaggio è netto, senza giri di parole, com'è subito evidente dal titolo
del primo capitolo – "il
partito della tortura". Sarebbe sbagliato, tuttavia, cogliere qui una forzatura.
Il termine "tortura"
compare in una lettera del 1970 di Paolo VI a proposito appunto dei trattamenti
inutili nella fase
terminale della vita, testimonianza di una consapevolezza che sembra smarrita e
che ha portato la
Chiesa ad assumere atteggiamenti di assoluta chiusura, in forme tali da
provocare una netta presa di
distanza da parte di molti credenti. Ed è proprio la polemica con le
posizioni della Chiesa cattolica a
costituire un dichiarato filo conduttore dell'intero libro, in due direzioni: il
rifiuto di ogni pretesa
teocratica, della imposizione a tutti di comportamenti fondati su una religione;
le contraddizioni
pratiche in cui la Chiesa si trova impigliata proprio quando stabilisce i
criteri in base ai quali
valutare la legittimità dei comportamenti.
Il caso Englaro viene esaminato come lo specchio d'una politica ottusa e
impietosa, che sfrutta
quell'occasione per interrompere la civile costruzione del diritto di governare
liberamente la propria
vita secondo Costituzione, e a questo sostituisce non il rispetto delle credenze
di ciascuno (che non
era mai stato in discussione), ma la dipendenza di Governo e maggioranza
parlamentare da
posizioni sempre più dure e dichiarate della gerarchia vaticana. Il
clima è quello di una
sottomissione della politica, che sta producendo ben più d'una specifica legge:
cambia i rapporti tra
la persona e lo Stato, mortificando o addirittura cancellando la rilevanza del
consenso informato.
Proprio l'accento posto sulla volontà della persona, sul suo diritto di
rifiutare le cure e di "non
soffrire", costituisce il riferimento costante della riflessione ulteriore, e
più impegnativa, condotta
da Flores d'Arcais, che lo porta ad affrontare direttamente il tema del suicidio
assistito, il cui
pregiudiziale rifiuto appare sostenuto da argomenti deboli, tali da determinare
anche ingiustificate
disparità di trattamento tra soggetti che si trovano in situazioni
sostanzialmente identiche (proprio
da questa considerazione prese le mosse il documento indirizzato alla Corte
Suprema degli Stati
Uniti da un gruppo di autorevoli filosofi morali). Ma deboli in sé, o per gli
esiti resi possibili
dall'innovazione scientifica e tecnologica, si presentano anche gli argomenti
fondati sulla vita come
"dono" o sul riferimento alla natura, con una critica che viene sviluppata anche
attraverso un
confronto con personalità autorevoli della Chiesa come i cardinali Tonini e
Tettamanzi.
Riflessione teorica e argomentazione costituzionale si congiungono, mettendo in
evidenza la
debolezza delle posizioni di chi sta adoperando lo strumento legislativo per
impadronirsi della vita
altrui, con una operazione che assume così i connotati di una prevaricazione.
Ma, proprio grazie al
lavoro di critici determinati, la coscienza di questa debolezza comincia a
diffondersi, incrina
certezze anche nella maggioranza politica che sta perseguendo l'obiettivo di
espropriare le persone
di quel diritto all'autodeterminazione definito "fondamentale" dalla Corte
costituzionale. Una
constatazione, questa, che induce non all'ottimismo, ma a confermare il dovere
di ognuno di fare la
sua parte, a reagire alla rassegnazione di chi pensa che l'azione culturale sia
ormai inutile. Fa bene,
quindi, Paolo Flores d'Arcais a sottolineare la necessità di continuare "la
lotta", e di farlo con
strumenti acuminati, e non compiacenti.
Stefano Rodotà la Repubblica 2 aprile 2009
Il sondino di Stato
Mentre c’è un gran daffare dei senatori che si accaniscono attorno a una legge
che dovrebbe
stabilire per filo e per segno come, quando e attraverso quali procedure una
persona in coma possa
morire, qualcuno mi ha ricordato un libro di David Maria Turoldo di cui riferii,
quando uscì, in una
mia rubrica sulla Stampa di Torino. Il libro era intitolato “… E poi la morte
dell’ultimo teologo”, e
raccontava di un’isola dove, tanti secoli fa, si era smesso di morire. E mentre
all’inizio tutti furono
contenti, e se ne gloriarono come di una gran vittoria della medicina, e perfino
i turisti accorrevano
a vedere questa meraviglia, a un bel momento si vide che senza morte non si
poteva stare. Nell’isola
si cominciò ad essere in troppi, e prima chiusero le porte all’immigrazione, poi
sterilizzarono le
donne. Non si festeggiarono più i compleanni, ma solo i centenari, i
bicentenari, i tricentenari; non
si iniziò più nessuna impresa, perché tutto era stato già vissuto; non potendosi
più commemorare i
morti, si cominciarono a celebrare i vivi, e ciascuno poté andare
all’inaugurazione della propria
statua, finché l’isola ne fu tutta piena; tutti i discorsi e le prediche erano
già stati sentiti, e quindi si
smise di farne; furono rotti tutti gli specchi, perché era venuto in uggia anche
il proprio volto e del
resto appariva invecchiato; se uno si ammalava non lo si curava, perché si
diceva: tanto non muore;
finì la pietà, finì l’amore. Finché tutti invocarono il ritorno della morte.
Dunque la vita non era più un valore? Sbagliava la medicina a volerla conservare
a tutti i costi e la
Chiesa a difenderla sopra ogni altra cosa? Sì, era un valore, ma come
tutti i valori se veniva
assolutizzato si rovesciava nel suo contrario. La vita non era più
vita, e tutti gli altri valori perivano.
E nemmeno Dio ne usciva troppo bene perché la sua gloria non è il principio
anonimo della vita ma,
come dice Sant’Ireneo, l’uomo vivente.
È qualcosa di cui si dovrebbe tener conto quando ci si mette a legiferare, e
occorre mettere insieme
principi, valori e diritti. Non dovrebbe essere troppo difficile. Il diritto
moderno non è come il
vecchio diritto positivista, dove era “l’autorità, non la verità” che faceva la
legge, e a cui moralità e
giustizia dovevano essere sovraimposte dall’esterno, tirandole giù dai cieli del
diritto naturale. Il
diritto di oggi, pur attraverso molte storie e dolori, ha incorporato in sé la
giustizia, ha formulato
principi e valori, li ha bilanciati, li ha tradotti in diritti e doveri, li ha
messi nella sua scrittura, nelle
sue Costituzioni. Non siamo all’anno zero della produzione giuridica, sicché di
fronte a nuovi
problemi, come quelli della bioetica, prima di legiferare ci si dovrebbe
rivolgere all’apposito
sportello per sapere cosa fare. Le linee maestre della legislazione sono già
date, i valori che entrano
in gioco sono i valori costituzionali, i principi sono quelli fondamentali
dell’ordinamento, i diritti
non sono assoluti, ma tengono conto di tutti gli altri. E quando ha a che fare
con le persone, con la
loro identità, con la loro coscienza, col loro destino, la legislazione dev’essere
sobria. L’uomo è una
cosa delicata, si sciupa. Meglio una norma in meno che una di troppo.
Ma se la legislazione cade in delirio di onnipotenza, volendo giungere a
impedire che anche un solo
sondino sia staccato anzitempo, allora sono dolori. Fa finta di legiferare su un
diritto (il diritto al
testamento biologico), e invece stabilisce una sorta di obbligo a sopravvivere;
e statalizza la morte,
separa i morenti dai loro cari, e mette il loro obbligo a vivere in mano a una
commissione di sei
medici (un medico legale, un neurofisiologo o equivalente, un neuroradiologo o
equivalente, il
medico curante, un anestesista-rianimatore, un medico specialista della
patologia!) nominati dalla
burocrazia dell’ospedale o della ASL. Stabilisce che in ogni caso non si può
sospendere
l’alimentazione e l’idratazione perché, secondo il parere espresso dal comitato
governativo di
bioetica recepito nella legge, l’acqua e il cibo sono indispensabili per vivere,
e non divengono una
terapia medica o un accanimento terapeutico, per il solo fatto che vengano
somministrati da medici
e per via artificiale. Però si sono dimenticati dell’aria: anche l’aria serve
per vivere, e spesso la si dà
anche artificialmente, come negli aerei in volo; allora perché l’aria, pompata
dal respiratore si può
togliere senza ledere il sacro principio della vita, mentre acqua e cibo
si devono introdurre
comunque da tutte le parti nel corpo per non essere chiamati omicidi? In
realtà con queste norme si
gioca con il testamento biologico, si punisce chi pretenderebbe decidere della
sua morte e si
aggiunge anche del sadismo: perché il documento vale solo per un quinquennio, e
ogni cinque anni
bisogna rinnovarlo in forma scritta e farlo confluire nel Registro nazionale
informatico all’uopo
istituito; un rito funereo, un dover pensare all’ipotesi di un tragico
morire a scadenza regolare, e
perfino una sfida, per chi ci crede, al malocchio. Non è una legge, è un
“memento mori” (ricordati di
dover morire) voluto dallo Stato.
Raniero La Valle in “Koinonia-Forum”, n. 138 del 1 aprile 2009