Scarti sociali

In carcere ci si toglie la vita 15-17 volte più di quanto si faccia fuori dal carcere. Nel corso del 2009 i suicidi sono stati 61: se tale ritmo dovesse continuare, avremmo a fine anno il più alto numero di suicidi dal 1990. Ci si ammazza, in carcere, con tutte le modalità che fantasia e disperazione suggeriscono: fornello a gas, chiodi e pezzi di vetro, autosoffocamento, impiccagione. A quest’ultimo metodo ha fatto ricorso Diana Blefari.
La domanda, quasi elementare, è: perché mai si trovava in carcere e non in una struttura psichiatrica protetta? Si intende: una struttura da cui non poter evadere e in cui scontare il suo ergastolo, ma curata per i gravi problemi psichici che, da molto tempo, aveva manifestato. E che decine di perizie avevano documentato. Al punto che, quando mi trovai ad avere tra il 2006 e il 2008 la responsabilità politica del sistema penitenziario, sollecitai la sua assegnazione a un regime che ne garantisse la «sorveglianza a vista 24 ore su 24».
Dunque, altro che suicidio annunciato. È stato un atto dichiarato, proclamato, per così dire atteso. Come in tanti altri casi, dove i reiterati tentativi di autolesionismo non ottengono una vigilanza sufficiente a sventare l’ultimo, quello definitivo. E così, nel corso di pochi giorni, dalle carceri italiane sono giunte tre terribili notizie: oltre a quella su Diana Blefari, quella su Stefano Cucchi e quella sul carcere di Teramo, dove il comandante dà istruzioni a un sottoposto su come «picchiare» i detenuti in assenza di testimoni.
In tutti questi casi, c’è un tabù che fatica a emergere: ed è l’idea che ciò possa accadere perché le vittime, alla resa dei conti, sono degli scarti sociali. È ovvio: la coscienza democratica, di destra e di sinistra, mai lo ammetterà, ma a ben vedere a questo tende l’orientamento di senso comune che, dopo il primo momento di emozione, sembra dominare. Cucchi: tossicomane, epilettico, piccolo spacciatore, forse sieropositivo; Blefari: quella che partecipa attivamente all’omicidio di Marco Biagi.
Il primo socialmente inerme ed esposto alla marginalità, la seconda condannata per un crimine efferato. Siamo proprio sicuri è questo il dubbio che si insinua nella mentalità collettiva che meritino tutte le garanzie e tutti i diritti che spettano a quegli irreprensibili che noi siamo?
La risposta è scontata, ma non per questo meno faticosa da elaborare e, soprattutto, da sostenere fino in fondo. Ogni vita in sé merita il massimo di tutela e quella tutela ha da essere ancora più salda quando la possibile vittima, a prescindere dal suo passato e dal curriculum penale, è affidata alla custodia dello Stato. Da quel momento, quella vita dev’essere sacra per chi (lo Stato e i suoi apparati) la riceve nelle proprie mani. Non solo. Il sistema delle garanzie è indivisibile: ridurre un diritto della Blefari significa accettare un processo che porta, fatalmente, alla riduzione di un diritto equivalente per il più incensurato dei cittadini. Dunque, come hanno affermato uomini saggi: la qualità di una democrazia la si verifica all’interno delle sue galere.

Luigi Manconi     l’Unità 2.11.09

 




Luigi Manconi, ex sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri: dietro le sbarre ancora troppi diritti disattesi.
"Era malata, non poteva stare dentro inascoltate decine di perizie psichiatriche"



I segnali di instabilità psichica erano evidenti e reiterati da anni. Eppure non è stato fatto niente
Oggi si insegue solo un´utopia negativa: aumentare i posti letto nelle galere. Insensato
Ai reclusi si dovrebbero dare speranze e chance: soluzioni impensabili per questo governo

 

 «Morte annunciata». Luigi Manconi, ex sottosegretario alla Giustizia nel governo Prodi con delega alle carceri (2006-2008), presidente dell´associazione "A buon diritto", ha seguito da vicino il caso di Nadia Blefari.
Professore, se lo aspettava?
«Mi occupai di lei all´epoca del mio incarico nel precedente governo, sollecitando l´amministrazione penitenziaria a seguire con particolare attenzione una persona reclusa che, già allora, mostrava segni evidenti e reiterati di instabilità psichica. Eppure non è stato fatto niente».
Ci furono anche molte perizie.
«Decine. Tutte quelle cui la Blefari è stata sottoposta in questi anni hanno dato una diagnosi inequivocabile: "Gravi disturbi mentali". Non mi pare che ci si possa confondere, sono valutazioni che stanno lì a testimoniare di una condizione che avrebbe dovuto imporre il suo ricovero in una struttura psichiatrica protetta».
Invece?
«Condannata all´ergastolo: come dire, segnata dal destino».
La vicenda Cucchi è assai diversa.
«È entrato con le sue gambe in caserma e ne è uscito cadavere. Ma il problema non è (solo) la disumanità della galera, a me interessano i diritti disattesi. Se tu cedi un diritto, rinunci a un sistema generale di garanzie. Oggi si insegue solo un´utopia negativa: aumentare i posti letto nelle galere per contenere i reati minori e le più nuove aggravanti come quello della clandestinità: a giugno prossimo avremo oltre 70 mila detenuti. Assurdo, folle, insensato».
C´è una relazione tra sovraffollamento e suicidi?
«C´è un dato inequivocabile, prodotto da molti studi: in carcere ci si ammazza tra le 15 e le 17 volte più che fuori, più i giovani che gli anziani, più nei primi giorni dell´ingresso negli istituti penitenziari che non dopo. Inutile mettere dentro chi può stare fuori».
Per esempio?
«Gli indiziati di reati minori, i clandestini. Ogni anno passano per la galera circa 170mila persone, recluse per non più di tre giorni e poi scarcerate. Mettere una persona in prigione per tre giorni non ha senso. Non punisce, non sanziona, non educa, non salva. L´unica cosa che si ottiene è l´intasamento: il personale non c´è, non ce la fa».
Cosa servirebbe?
«Attese, chance, speranze. Posto che ogni suicidio è ovviamente una storia a sé, la tentazione a togliersi la vita nei detenuti è legata da una parte all´assenza di qualsiasi aspettativa, dall´altra all´impatto con una realtà oscura, con le sue regole, i suoi sistemi di relazioni».
Provvedimenti pratici?
«Nella precedente amministrazione, furono due, entrambi disincentivanti: l´indulto e i presidi ai nuovi giunti, quelli cioè che sono appena arrivati in carcere, alcuni di loro per la prima volta. Tutte e due le soluzioni sono oggi fuori dall´orizzonte di questo governo: a chi è dentro non si dà fiducia di poter invertire quel punto di non ritorno, a chi vi arriva, magari per reati minori, non si dà l´assistenza necessaria per superare quel trauma che può disarticolare un´esistenza. L´unica soluzione è depenalizzare e ricorrere a misure alternative».

Alessandra Retico    Repubblica 2.11.09

 



Il diritto all’umanità

In carcere per l´omicidio di Marco Biagi, commesso nel 2002, la terrorista Diana Blefari si è uccisa dopo aver ricevuto notifica della sentenza della Corte di Cassazione che confermava il suo ergastolo.
Si è impiccata facendo un cappio con le lenzuola del letto, nella sua cella di Rebibbia. Le condizioni psichiche della terrorista erano pessime. Molti lo sapevano. I medici del carcere ne avevano già chiesto il trasferimento in un´altra struttura più idonea e avevano sottolineato, a varie riprese, il rischio di un gesto irreversibile. "Un suicidio prevedibile", dichiara Angiolo Marroni, garante dei detenuti del Lazio. "Il sessantesimo caso di suicidio in carcere dall´inizio dell´anno", ribadisce il presidente dell´associazione Antigone, che si batte per i diritti dei detenuti. Come è possibile che un paese democratico che proclama l´universalità dei diritti dell´uomo e considera la dignità della persona un valore supremo da rispettare sempre e comunque non prenda le misure adeguate per evitare una tragedia come questa? Per quanto in prigione per ragioni legittime, nessun detenuto merita questa sorte.
La necessità di far rispettare la legge uguale per tutti, è fuori discussione. Non si tratta in alcun modo di mettere in dubbio uno dei cardini della giustizia, il principio chiave di ogni sistema giudiziario, in base al quale ad ogni crimine corrisponde una pena. L´esistenza di un´infrazione, di un crimine o di un delitto merita la giusta punizione. Non solo perché si sono infrante delle leggi e si è messo in pericolo l´ordine pubblico, ma anche e soprattutto perché, nel caso di crimini contro le persone, in particolare un omicidio, qualcuno si è arrogato il diritto di alzare la mano contro un altro essere umano. Esistono dei doveri cui tutti devono sottoporsi e, nel momento in cui questi non vengano rispettati intenzionalmente (mens rea), non si è solo responsabili, ma anche colpevoli.
Ma cosa significa punire? Come determinare la pena adeguata per l´autore di un crimine senza tornare alla legge del taglione? "Occhio per occhio, dente per dente", recita l´adagio. Ma la giustizia comincia dal momento in cui si abbandona la logica della vendetta per definire una pena proporzionale al delitto commesso. Nel famoso saggio di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, il filosofo milanese insisteva sul ruolo preventivo della pena. Per Beccaria il fine delle pene non doveva essere "vendicativo", ma "rieducativo". È per questo che oggi si è d´accordo nel ritenere che una sanzione sia giusta non soltanto se è proporzionata alla colpa, ma anche se l´autore di un delitto o di un crimine è riconosciuto legalmente responsabile, ossia capace di intendere e di volere al momento dei fatti. Una volta, però, che la pena è stata pronunciata, in che modo applicarla? Si possono dimenticare le circostanze particolari in cui si trovano i condannati, e non fare attenzione allo stato di salute di coloro che, privati della libertà personale, scontano la propria pena in carcere?
"Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona", sostiene la legge promulgata nel 1975 per regolamentare le condizioni di vita delle carceri italiane. Eppure, in questi ultimi anni, le condizioni di vita dei carcerati sono diventate sempre più precarie. Gli spazi disponibili si sono drasticamente ridotti. I momenti comunitari sono scomparsi. Il numero dei suicidi è aumentato in modo esponenziale. Al punto tale che l´Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell´uomo per "trattamenti inumani e degradanti". Questo ultimo gesto drammatico, il suicidio di Diana Blefari, non è che un sintomo supplementare; il segno che qualcosa non funziona più. Come dice il Conseil d´État in Francia, l´amministrazione penitenziaria – e più generalmente lo Stato – è responsabile dello stato di salute di un detenuto e colpevole di mancata vigilanza nel caso di un suicidio (CE, 9 luglio 2007)
Diana Blefari era malata. Il suo stato psichico necessitava il ricovero. La sua fragilità aveva bisogno di un´attenzione che nessuno dovrebbe negare a chi, pur colpevole, soffre talmente tanto da non esitare a mettere fine ai propri giorni. Punire non significa dimenticarsi che ciò che ci rende umani non è solo la capacità di vivere in una società rispettandone le regole, ma anche e soprattutto la compassione di fronte alla sofferenza.
Se vuoi conoscere davvero un paese, diceva Voltaire, visitane le prigioni.

Michela Marzano   Repubblica 2.11.09