Scandali, affari e misteri. Tutti i segreti dello Ior (7)

 

La chiesa cattolica è l'unica religione a disporre di una dottrina sociale, fondata sulla lotta alla

povertà e la demonizzazione del danaro, «sterco del diavolo». Vangelo secondo Matteo: «E' più

facile che un cammello passi nella cruna dell'ago, che un ricco entri nel regno dei cieli». Ma è anche

l'unica religione ad avere una propria banca per maneggiare affari e investimenti, l'Istituto Opere

Religiose. La sede dello Ior è uno scrigno di pietra all'interno delle mura vaticane. Una suggestiva

torre del Quattrocento, fatta costruire da Niccolò V, con mura spesse nove metri alla base. Si entra

attraverso una porta discreta, senza una scritta, una sigla o un simbolo. Soltanto il presidio delle

guardie svizzere notte e giorno ne segnala l'importanza. All'interno si trovano una grande sala di

computer, un solo sportello e un unico bancomat. Attraverso questa cruna dell'ago passano immense

e spesso oscure fortune. Le stime più prudenti calcolano 5 miliardi di euro di depositi. La banca

vaticana offre ai correntisti, fra i quali come ha ammesso una volta il presidente Angelo Caloia

«qualcuno ha avuto problemi con la giustizia», rendimenti superiori ai migliori hedge fund e un

vantaggio inestimabile: la totale segretezza. Più impermeabile ai controlli delle isole Cayman, più

riservato delle banche svizzere, l'istituto vaticano è un vero paradiso (fiscale) in terra. Un libretto

d'assegni con la sigla Ior non esiste. Tutti i depositi e i passaggi di danaro avvengono con bonifici,

in contanti o in lingotti d'oro. Nessuna traccia.

Da vent'anni, quando si chiuse il processo per lo scandalo del Banco Ambrosiano, lo Ior è un buco

nero in cui nessuno osa guardare. Per uscire dal crac che aveva rovinato decine di migliaia di

famiglie, la banca vaticana versò 250 milioni di dollari ai liquidatori. Meno di un quarto rispetto ai

1.159 milioni di dollari dovuti secondo l'allora ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta. Lo

scandalo fu accompagnato da infinite leggende e da una scia di cadaveri eccellenti. Michele

Sindona avvelenato nel carcere di Voghera, Roberto Calvi impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a

Londra, il giudice istruttore Emilio Alessandrini ucciso dai colpi di Prima Linea, l'avvocato Giorgio

Ambrosoli freddato da un killer della mafia venuto dall'America al portone di casa.

Senza contare il mistero più inquietante, la morte di papa Luciani, dopo soli 33 giorni di pontificato,

alla vigilia della decisione di rimuovere Paul Marcinkus e i vertici dello Ior. Sull'improvvisa fine di

Giovanni Paolo I si sono alimentate macabre dicerie, aiutate dalla reticenza vaticana. Non vi sarà

autopsia per accertare il presunto e fulminante infarto e non sarà mai trovato il taccuino con gli

appunti sullo Ior che secondo molti testimoni il papa portò a letto l'ultima notte.

Era lo Ior di Paul Marcinkus, il figlio di un lavavetri lituano, nato a Cicero (Chicago) a due strade

dal quartier generale di Al Capone, protagonista di una delle più clamorose quanto inspiegabili

carriere nella storia recente della chiesa. Alto e atletico, buon giocatore di baseball e golf, era stato

l'uomo che aveva salvato Paolo VI dall'attentato nelle Filippine. Ma forse non basta a spiegare la

simpatia di un intellettuale come Montini, autore della più avanzata enciclica della storia, la

Populorum Progressio, per questo prete americano perennemente atteggiato da avventuriero di Wall

Street, con le mazze da golf nella fuoriserie, l'Avana incollato alle labbra, le stupende segreterie

bionde e gli amici di poker della P2.

Con il successore di papa Luciani, Marcinkus trova subito un'intesa. A Karol Wojtyla piace molto

quel figlio di immigrati dell'Est che parla bene il polacco, odia i comunisti e sembra così sensibile

alle lotte di Solidarnosc. Quando i magistrati di Milano spiccano mandato d'arresto nei confronti di

Marcinkus, il Vaticano si chiude come una roccaforte per proteggerlo, rifiuta ogni collaborazione

con la giustizia italiana, sbandiera i passaporti esteri e l'extraterritorialità. Ci vorranno altri dieci

anni a Woytjla per decidersi a rimuovere uno dei principali responsabili del crac Ambrosiano dalla

presidenza dello Ior. Ma senza mai spendere una parola di condanna e neppure di velata critica:

Marcinkus era e rimane per le gerarchie cattoliche «una vittima», anzi «un'ingenua vittima».

Dal 1989, con l'arrivo alla presidenza di Angelo Caloia, un galantuomo della finanza bianca, amico

e collaboratore di Gianni Bazoli, molte cose dentro lo Ior cambiano. Altre no. Il ruolo di

bonificatore dello Ior affidato al laico Caloia è molto vantato dalle gerarchie vaticane all'esterno

quanto ostacolato all'interno, soprattutto nei primi anni. Come confida lo stesso Caloia al suo

diarista, il giornalista cattolico Giancarlo Galli, autore di un libro fondamentale ma introvabile,

Finanza bianca (Mondadori, 2003). «Il vero dominus dello Ior - scrive Galli - rimaneva monsignor

Donato De Bonis, in rapporti con tutta la Roma che contava, politica e mondana. Francesco Cossiga

lo chiamava Donatino, Giulio Andreotti lo teneva in massima considerazione. E poi aristocratici,

finanzieri, artisti come Sofia Loren. Questo spiegherebbe perché fra i conti si trovassero anche

quelli di personaggi che poi dovevano confrontarsi con la giustizia. Bastava un cenno del

monsignore per aprire un conto segreto». A volte monsignor De Bonis accompagnava di persona i

correntisti con i contanti o l'oro nel caveau, attraverso una scala, in cima alla torre, «più vicino al

cielo». I contrasti fra il presidente Caloia e De Bonis, in teoria sottoposto, saranno frequenti e duri.

Commenta Giancarlo Galli: «Un'aurea legge manageriale vuole che, in caso di conflitto fra un

superiore e un inferiore, sia quest'ultimo a soccombere. Ma essendo lo Ior istituzione

particolarissima, quando un laico entra in rotta di collisione con una tonaca non è più questione di

gradi».

La glasnost finanziaria di Caloia procede in ogni caso a ritmi serrati, ma non impedisce che l'ombra

dello Ior venga evocata in quasi tutti gli scandali degli ultimi vent'anni. Da Tangentopoli alle stragi

del ‘93 alla scalata dei «furbetti» e perfino a Calciopoli. Ma come appare, così l'ombra si dilegua.

Nessuno sa o vuole guardare oltre le mura impenetrabili della banca vaticana.

L'autunno del 1993 è la stagione più crudele di Tangentopoli. Subito dopo i suicidi veri o presunti di

Gabriele Cagliari e di Raul Gardini, la mattina del 4 ottobre arriva al presidente dello Ior una

telefonata del procuratore capo del pool di Mani Pulite, Francesco Saverio Borrelli: «Caro

professore, ci sono dei problemi, riguardanti lo Ior, i contatti con Enimont...». Il fatto è che una

parte considerevole della «madre di tutte le tangenti», per la precisione 108 miliardi di lire in

certificati del Tesoro, è transitata dallo Ior. Sul conto di un vecchio cliente, Luigi Bisignani,

piduista, giornalista, collaboratore del gruppo Ferruzzi e faccendiere in proprio, in seguito

condannato a 3 anni e 4 mesi per lo scandalo Enimont e di recente rispuntato nell'inchiesta "Why

Not" di Luigi De Magistris. Dopo la telefonata di Borrelli, il presidente Caloia si precipita a

consulto in Vaticano da monsignor Renato Dardozzi, fiduciario del segretario di Stato Agostino

Casaroli. «Monsignor Dardozzi - racconterà a Galli lo stesso Caloia - col suo fiorito linguaggio

disse che ero nella merda e, per farmelo capire, ordinò una brandina da sistemare in Vaticano. Mi

opposi, rispondendogli che avrei continuato ad alloggiare all'Hassler. Tuttavia accettai il

suggerimento di consultare d'urgenza dei luminari di diritto. Una risposta a Borrelli bisognava pur

darla!». La risposta sarà di poche ma definitive righe: «Ogni eventuale testimonianza è sottoposta a

una richiesta di rogatoria internazionale». I magistrati del pool valutano l'ipotesi della rogatoria. Lo

Ior non ha sportelli in terra italiana, non emette assegni e, in quanto «ente fondante della Città del

Vaticano», è protetto dal Concordato: qualsiasi richiesta deve partire dal ministero degli Esteri. Le

probabilità di ottenere la rogatoria in queste condizioni sono lo zero virgola. In compenso l'effetto di

una richiesta da parte dei giudici milanesi sarebbe devastante sull'opinione pubblica. Il pool si ritira

in buon ordine e si accontenta della spiegazione ufficiale: «Lo Ior non poteva conoscere la

destinazione del danaro».

Il secondo episodio, ancora più cupo, risale alla metà degli anni Novanta, durante il processo per

mafia a Marcello Dell'Utri. In video conferenza dagli Stati Uniti il pentito Francesco Marino

Mannoia rivela che «Licio Gelli investiva i danari dei corleonesi di Totò Riina nella banca del

Vaticano». «Lo Ior garantiva ai corleonesi investimenti e discrezione». Fin qui Mannoia fornisce

informazioni di prima mano. Da capo delle raffinerie di eroina di tutta la Sicilia occidentale,

principale fonte di profitto delle cosche. Non può non sapere dove finiscono i capitali mafiosi.

Quindi va oltre, con un'ipotesi. «Quando il Papa (Giovanni Paolo II, ndr) venne in Sicilia e

scomunicò i mafiosi, i boss si risentirono soprattutto perché portavano i loro soldi in Vaticano. Da

qui nacque la decisione di far esplodere due bombe davanti a due chiese di Roma». Mannoia non è

uno qualsiasi. E' secondo Giovanni Falcone «il più attendibile dei collaboratori di giustizia», per

alcuni versi più prezioso dello stesso Buscetta. Ogni sua affermazione ha trovato riscontri oggettivi.

Soltanto su una non si è proceduto ad accertare i fatti, quella sullo Ior. I magistrati del caso Dell'Utri

non indagano sulla pista Ior perché non riguarda Dell'Utri e il gruppo Berlusconi, ma passano le

carte ai colleghi del processo Andreotti. Scarpinato e gli altri sono a conoscenza del precedente di

Borrelli e non firmano la richiesta di rogatoria. Al palazzo di giustizia di Palermo qualcuno in alto

osserva: «Non ci siamo fatti abbastanza nemici per metterci contro anche il Vaticano?».

Sulle trame dello Ior cala un altro sipario di dieci anni, fino alla scalata dei "furbetti del

quartierino". Il 10 luglio dell'anno scorso il capo dei "furbetti", Giampiero Fiorani, racconta in

carcere ai magistrati: «Alla Bsi svizzera ci sono tre conti della Santa Sede che saranno, non esagero,

due o tre miliardi di euro». Al pm milanese Francesco Greco, Fiorani fa l'elenco dei versamenti in

nero fatti alle casse vaticane: «I primi soldi neri li ho dati al cardinale Castillo Lara (presidente

dell'Apsa, l'amministrazione del patrimonio immobiliare della chiesa, ndr), quando ho comprato la

Cassa Lombarda. M'ha chiesto trenta miliardi di lire, possibilmente su un conto estero». Altri

seguiranno, molti a giudicare dalle lamentele dello stesso Fiorani nell'incontro con il cardinale

Giovanni Battista Re, potente prefetto della congregazione dei vescovi e braccio destro di Ruini:

«Uno che vi ha sempre dato i soldi, come io ve li ho sempre dati in contanti, e andava tutto bene,

ma poi quando è in disgrazia non fate neanche una telefonata a sua moglie per sapere se sta bene o

male».

Il Vaticano molla presto Fiorani, ma in compenso difende Antonio Fazio fino al giorno prima delle

dimissioni, quando ormai lo hanno abbandonato tutti. Avvenire e Osservatore Romano ripetono fino

all'ultimo giorno di Fazio in Bankitalia la teoria del «complotto politico» contro il governatore. Del

resto, la carriera di questo strano banchiere che alle riunioni dei governatori centrali non ha mai

citato una volta Keynes ma almeno un centinaio di volte le encicliche, si spiega in buona parte con

l'appoggio vaticano. In prima persona di Camillo Ruini, presidente della Cei, e poi di Giovanni

Battista Re, amico intimo di Fazio, tanto da aver celebrato nel 2003 la messa per il venticinquesimo

anniversario di matrimonio dell'ex governatore con Maria Cristina Rosati. Naturalmente neppure i

racconti di Fiorani aprono lo scrigno dei segreti dello Ior e dell'Apsa, i cui rapporti con le banche

svizzere e i paradisi fiscali in giro per il mondo sono quantomeno singolari. E' difficile per esempio

spiegare con esigenze pastorali la decisione del Vaticano di scorporare le Isole Cayman dalla

naturale diocesi giamaicana di Kingston, per proclamarle "missio sui iuris" alle dirette dipendenze

della Santa Sede e affidarle al cardinale Adam Joseph Maida, membro del collegio dello Ior.

Il quarto e ultimo episodio di coinvolgimento dello Ior negli scandali italiani è quasi comico rispetto

ai precedenti e riguarda Calciopoli. Secondo i magistrati romani Palamara e Palaia, i fondi neri della

Gea, la società di mediazione presieduta dal figlio di Moggi, sarebbero custoditi nella banca

vaticana. Attraverso i buoni uffici di un altro dei banchieri di fiducia della Santa Sede dalla fedina

penale non immacolata, Cesare Geronzi, padre dell'azionista di maggioranza della Gea. Nel caveau

dello Ior sarebbe custodito anche il "tesoretto" personale di Luciano Moggi, stimato in 150 milioni

di euro. Al solito, rogatorie e verifiche sono impossibili. Ma è certo che Moggi gode di grande

considerazione in Vaticano. Difeso dalla stampa cattolica sempre, accolto nei pellegrinaggi a

Lourdes dalla corte di Ruini, Moggi è da poco diventato titolare di una rubrica di "etica e sport" su

Petrus, il quotidiano on-line vicino a papa Benedetto XVI, da dove l'ex dirigente juventino rinviato

a giudizio ha subito cominciato a scagliare le prime pietre contro la corruzione (altrui).

Con l'immagine di Luciano Moggi maestro di morale cattolica si chiude l'ultima puntata

dell'inchiesta sui soldi della Chiesa. I segreti dello Ior rimarranno custoditi forse per sempre nella

torre-scrigno. L'epoca Marcinkus è archiviata ma l'opacità che circonda la banca della Santa Sede è

ben lontana dallo sciogliersi in acque trasparenti. Si sa soltanto che le casse e il caveau dello Ior non

sono mai state tanto pingui e i depositi continuano ad affluire, incoraggiati da interessi del 12 per

cento annuo e perfino superiori. Fornire cifre precise è, come detto, impossibile. Le poche accertate

sono queste. Con oltre 407 mila dollari di prodotto interno lordo pro capite, la Città del Vaticano è

di gran lunga lo «stato più ricco del mondo», come si leggeva nella bella inchiesta di Marina

Marinetti su Panorama Economy. Secondo le stime della Fed del 2002, frutto dell'unica inchiesta di

un'autorità internazionale sulla finanza vaticana e riferita soltanto agli interessi su suolo americano,

la chiesa cattolica possedeva negli Stati Uniti 298 milioni di dollari in titoli, 195 milioni in azioni,


102 in obbligazioni a lungo termine, più joint venture con partner Usa per 273 milioni.

Nessuna autorità italiana ha mai avviato un'inchiesta per stabilire il peso economico del Vaticano

nel paese che lo ospita. Un potere enorme, diretto e indiretto. Negli ultimi decenni il mondo

cattolico ha espugnato la roccaforte tradizionale delle minoranze laiche e liberali italiane, la finanza.

Dal tramonto di Enrico Cuccia, il vecchio azionista gran nemico di Sindona, di Calvi e dello Ior, la

«finanza bianca» ha conquistato posizioni su posizioni. La definizione è certo generica e comprende

personaggi assai distanti tra loro. Ma tutti in relazione stretta con le gerarchie ecclesiastiche, con le

associazioni cattoliche e con la prelatura dell'Opus Dei. In un'Italia dove la politica conta ormai

meno della finanza, la chiesa cattolica ha più potere e influenza sulle banche di quanta ne avesse ai

tempi della Democrazia Cristiana .

 

Curzio Maltese      “la Repubblica”  26 gennaio 2008