Santo subito? Il paradiso può attendere
La canonizzazione di
Giovanni Paolo II troverebbe certo un largo consenso in un'ampia parte della
chiesa, rappresentata da quelle folle che dopo la sua morte, scandirono
insistentemente: «Santo subito!». Ma essa provocherebbe un profondo turbamento
in altri settori della chiesa, per la figura di un papa, che non ha compreso il
loro impegno, che li ha repressi e emarginati, che ha soffocato la loro libertà
di ricerca e di pensiero. Non si tratta certo di un turbamento da intendere come
reazione puramente emotiva, ma della sofferenza di quanti hanno visto frainteso
e condannato il loro sforzo di vivere coerentemente il progetto di Gesù. Essi ed
esse non parlano, come tanti pensano, sulla base di presupposti ideologici, ma a
partire dalla loro esperienza di vita.
Così il papa che ha perdonato, tra l'ammirazione di tutto
il mondo, il suo attentatore, il suo assassino, non è riuscito a perdonare
quanti hanno creduto giusto disobbedire alla chiesa per obbedire a Cristo e al
suo Vangelo. Queste riserve sulla figura e l'opera di Giovanni Paolo II non
intendono certo negare la sua grandezza, il suo impegno per la pace,
l'affermazione della chiesa del mondo. Ma alcuni cristiani temono che una sua
eventuale canonizzazione possa farne un modello anche negli aspetti meno
evangelici della sua pastorale.
L'esperienza di Karol Wojtyla
All'origine dell'incomprensione e della repressione, che
crediamo di dover segnalare, vi è indubbiamente l'esperienza pastorale e
politica di Karol Wojtyla nella chiesa e nella società polacca. Una società e
una chiesa segnate dalla crudele oppressione prima nazista e poi comunista. La
lotta, spesso eroica, di questo popolo e di questa chiesa era diretta
principalmente contro il regime comunista, nei cui confronti la chiesa
rappresentava la forza principale della resistenza; nei cui confronti essa si
batteva in particolare per difendere la sua libertà, la sua dottrina, i suoi
riti. Karol Wojtyla considerò la chiesa polacca come il paradigma della chiesa
universale e la chiave di lettura, che permetteva di identificare i problemi
fondamentali, primo fra tutti la lotta fra cristianesimo e comunismo, intesa
come lotta tra il bene e il male. Sulla base di questa immagine conservatrice e
anticomunista il vescovo di Cracovia interpretò il Concilio Vaticano II, in
senso opposto alla linea maggioritaria, preoccupata del rinnovamento e del
dialogo; interpretò quindi in senso conservatore e anticomunista il progetto di
chiesa lanciato dal Concilio. Nasce di qui l'ostilità di Giovanni Paolo II e
della curia romana, formata a sua immagine e somiglianza, non solo al marxismo,
ma a tutte le teologie e alle iniziative pastorali sospettate, a torto o a
ragione (ma per lo più a torto), di essere corrotte dall'influsso marxista.
Questo fraintendimento di idee e di persone lo portò a reprimere la libertà di
ricerca teologica, nello stesso momento in cui rivendicava la libertà della
chiesa contro i regimi comunisti; fraintendimento che lo indusse a commettere
gravi ingiustizie nei confronti di persone e di movimenti, che, ispirandosi al
Vangelo e al Concilio Vaticano II, hanno operato per il rinnovamento della
chiesa.
Silenzio, silenzio, silenzio
Vorrei ora segnalare alcune ricerche teologiche e alcuni
aspetti della pastorale di Giovanni Paolo II, che illustrano concretamente il
dramma evocato finora in termini generali. Questo dramma è vissuto in
particolare dai teologi della liberazione, schierati nel pensiero e nell'azione
dalla parte dei poveri. Essi vennero condannati, rimossi dall'insegnamento,
ridotti al silenzio, emarginati, perché accusati, ingiustamente, del peccato di
marxismo.
La teologia della liberazione ispirò in particolare la
chiesa popolare nicaraguense, chiesa dei poveri. Essa venne duramente condannata
da Giovanni Paolo II, senza nessun riconoscimento per tante persone, in
particolare giovani, impegnate a costruire una nuova società, anche esponendo la
loro vita; senza nessun riconoscimento per una rivoluzione che cercava di
ispirarsi alla scelta dei poveri. Invece, di fronte a questa rivoluzione
Giovanni Paolo II e la gerarchia locale con il suo appoggio, presero posizione
per la borghesia locale; per la controrivoluzione armata, per l'impero
statunitense, cui in nome dell'anticomunismo venivano condonati i delitti
commessi in tutto il mondo. La condanna della chiesa popolare fu pronunciata con
particolare asprezza dal papa in un discorso tenuto di fronte a una folla di
nicaraguensi, accorsi per sentire da lui una parola di speranza. In questo
discorso Giovanni Paolo II difese energicamente l'autorità dei vescovi,
notoriamente schierati contro la rivoluzione; ma cercò di tacitare il popolo,
ingiungendogli ripetutamente «silenzio, silenzio silenzio». La sintesi di quel
discorso fu «parlino i vescovi, il popolo taccia» (cosa che non accadeva mai
quando le folle lo acclamavano). Durante questo discorso fu particolarmente
doloroso per la popolazione il silenzio del papa di fronte alle mamme che gli
chiedevano una preghiera per i loro figli morti qualche giorno prima in
combattimento. Probabilmente il papa non volle pregare per quei defunti,
discriminati anche dopo la morte, temendo che questa preghiera venisse
interpretata come un'approvazione della lotta rivoluzionaria. Silenzio questo
che inflisse una grave ferita al cuore di quelle mamme in lutto. Esse
aspettavano dal papa una parola paterna di consolazione e di affettuosa
partecipazione, che un amore sincero avrebbe certamente suggerito.
Mesi e anni dopo si poté constatare che quella ferita non
si era rimarginata. La condanna della chiesa popolare colpì anche i sacerdoti
che, interpretando il loro ministero alla luce del Vangelo, avevano assunto il
rischio di impegnarsi al fianco del loro popolo.
I rifiuti della gerarchia
Nella sua seconda visita in Nicaragua, il papa proclamò con
evidente soddisfazione la morte del marxismo e quindi della Teologia della
liberazione. Qualificò poi il periodo del governo sandinista come «notte
oscura»: formula che, ripresa dalla propaganda, contribuì alla vittoria
elettorale del partito liberale, cioè dei ricchi del paese. L'incomprensione del
papa e della curia romana nei confronti delle rivoluzioni popolari e della
Teologia della liberazione si è espressa in modo doloroso, e direi anche
scandaloso nei confronti di monsignor Romero, totalmente identificato con la
lotta del suo popolo, fino alla morte; che fu ricevuto a Roma con freddezza e
diffidenza. Mi sono soffermato sulla Teologia della liberazione, perché essa è
un'espressione emblematica del difficile rapporto tra la gerarchia e il popolo
di Dio sotto questo pontificato. Ma esistono molti altri settori in cui la
chiesa assunse nei confronti dei settori emarginati un atteggiamento repressivo,
che sussiste tuttora.
Penso al rifiuto di riconoscere il ruolo della donna nella
chiesa, manifestato in particolare nei confronti della teologia femminista.
Penso al rifiuto di riconoscere l'autodeterminazione religiosa dei popoli
indigeni, manifestato con la valorizzazione della evangelizzazione coercitiva e
quindi della conquista; così anche la diffidenza nei confronti della chiesa
indigena e della teologia indigena. A queste condanne si connettono le critiche
rivolte dal Vaticano ai vescovi impegnati nella promozione dei popoli indigeni,
come Samuel Ruiz, vescovo di San Cristóbal de Las Casas, in Messico e Leonidas
Proaño, vescovo di Riobamba, in Ecuador.
Penso ancora alla condanna del pluralismo religioso,
emarginazione delle religioni non cristiane, intesa a riaffermare l'autorità
della chiesa cattolica come unica vera religione. Si aggiunga finalmente
l'emarginazione degli omosessuali, delle lesbiche, dei divorziati e delle
divorziate, delle copie di fatto, delle copie omosessuali, esclusi senza
comprensione dalla comunione ecclesiale. In una parola, se l'amore è il segno
più autentico della fedeltà al Vangelo, possiamo riconoscere in questa pastorale
il segno della fedeltà al Vangelo, da proporre come modello a tutti i cristiani?
GIULIO GIRARDI Il manifesto 24/10/05