Santo per difetto di memoria

Dopo la rimozione della scritta «Arbeit macht frei» dal cancello di Auschwitz, si è detto che si
trattava di un attentato contro la memoria, di un tentativo di cancellarla. A me sembra invece che
azioni del genere siano il risultato di una vera e propria ossessione per la memoria: un'ossessione
che rende insopportabile l'esistenza di certi oggetti e che cerca di placarsi possedendoli e cancellandoli al tempo stesso, e si illude così di controllare e dominare anche la memoria altrui.

È questo il fondamento emotivo dei revisionismi e dei negazionismi.
Che, più si affannano a cancellare, manipolare, nascondere queste memorie, più mostrano di essere
dominati da quello che vorrebbero dominare. Solo chi non può dimenticare rimuove. Di questa
ossessione, legata agli stessi eventi della guerra mondiale e della Shoah, fa parte anche il processo
di beatificazione di Pio XII per le sue «virtù eroiche», di fatto confermato e nuovamente giustificato
dalla Santa Sede anche se soltanto «disgiunto» da quella di Giovanni Paolo II. Io non so se esista
una definizione di eroismo nella dottrina teologica o nei codici di diritto canonico; ma so che nel
nostro linguaggio ordinario l'eroismo comporta sempre un'assunzione di rischio, un mettersi in
gioco, mentre la capacità (o se vogliamo la virtù) mediatrice e diplomatica di Papa Pacelli durante
la guerra e la Shoah consistette precisamente nel tenere fuori dal pericolo la sua istituzione e la sua
persona, e di compiere a protezione dei perseguitati tutte, e solo, quelle azioni che si potevano
compiere senza correre rischi. A rischiare, anche in seno alla Chiesa, furono altri.

Può darsi pure che avesse ragione, e abbia fatto la cosa più saggia ed equilibrata, non sto qui a
discuterlo. Ma mi sembra che l'insistenza sulla beatificazione, sua e di altri papi problematici come
Pio IX, abbia anch'essa a che fare più con questa ossessione della memoria che con virtù vere o
presunte. Voi ricordate ambiguità, criticate silenzi, dubitate sulle esitazioni? E noi proprio per
questo beatifichiamo: alla vostra memoria problematica sovrapponiamo una memoria canonica
certificata, pacificata e vera per fede.

Ora, la memoria non è né una cosa buona né una cosa cattiva: come la respirazione, è una funzione
inevitabile degli esseri umani,
in una certa misura è addirittura involontaria - non possiamo decidere
di non avere memoria, così come non possiamo decidere di non respirare. Ma proprio per questo,
come possiamo impegnarci su come respirare, su che aria vogliamo metterci nei polmoni, anche
sulla memoria possiamo lavorare, esercitarci, fare attenzione, essere il più possibile coscienti di
come e che cosa ricordiamo. Per questo, la memoria non è un dato stabile ma un terreno di conflitto:
se abbassiamo per un attimo la vigilanza, la nostra mente sarà posseduta da cattive memorie, da
memorie altrui: siamo come gli eroi cyberpunk di William Gibson, capaci di espandere all'infinito la
propria coscienza nel ciberspazio, ma vulnerabili ogni momento dall'invasione del ciberspazio
nell'intimo più profondo della propria psiche.

L'ossessione conservatrice e reazionaria per la memoria nasce da qui: all'impossibilità di
dimenticare e di far dimenticare incubi del passato si risponde cercando di controllarli e di sostituirli
con memorie alternative. La resistenza, certo, sta nell'impedire la cancellazione dei segni e dei
simboli, ed è un bene che la scritta di Auschwitz sia tornata al suo posto (a me piacerebbe che i
segni della frammentazione a cui è stata sottoposta dai rapitori restassero visibili - segni di una
seconda memoria, della memoria della profanazione). Ma la resistenza sta soprattutto dentro di noi,
sta anche nella nostra capacità di ricordare senza dipendere troppo dai promemoria e dagli oggetti.

In un memorabile racconto di Alice Walker, Per uso quotidiano, due sorelle si litigano un quilt,
cimelio familiare patchwork in cui sono incorporati il lavoro di una nonna e frammenti dei suoi
vestiti. La sorella «colta», proprio come il committente del furto di Auschwitz, vuole farne un
oggetto da collezionista, appeso al muro; la sorella campagnola è pure disposta a lasciarglielo fare,
tanto «io sono capace di ricordarmi di nonna Dee anche senza il quilt». La memoria siamo noi, e se
il furto di un oggetto sia pure infinitamente simbolico bastasse a indebolirla vorrebbe dire che
abbiamo già cominciato a dimenticare.

Alessandro Portelli    il manifesto  24 dicembre 2009

 

 


Il pontificato delle precisazioni


Un´altra piccola gaffe? Un´altra marcia indietro? Un´altra necessaria e non prevista "precisazione"?
Abbiamo già assistito alla precisazione sull´islam dopo il discorso di Ratisbona. E poi alla
precisazione sulla revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani con le concomitanti
dichiarazioni negazioniste di mons. Williamson, alla precisazione sulla preghiera del venerdì santo
per la conversione degli ebrei. Ora va forse interpretata allo stesso modo la dichiarazione di ieri
della Sala stampa vaticana sulla travagliata via verso la beatificazione di Pio XII? Quello che è certo
è che sei mesi fa padre Gumpel, il gesuita tedesco postulatore della causa di beatificazione di Pio
XII, aveva dichiarato tra lo stupore del mondo che papa Pacelli non riusciva a salire agli onori 
dell´altare perché Benedetto XVI era intimidito dalle pressioni del mondo ebraico.

Padre Gumpel naturalmente poi aveva smentito dicendo che era stato (anche lui) frainteso, e una settimana fa,
quando si era venuti a conoscenza che Benedetto XVI aveva firmato insieme i decreti sulle virtù
eroiche di Giovanni Paolo II e di Pio XII, l´idea che papa Ratzinger potesse essere intimorito dal
mondo ebraico nella sua ferma determinazione di beatificare quanto prima papa Pacelli risultava del
tutto inverosimile. Oggi però non è più così. Oggi l´ennesima precisazione a cui è stato costretto il
direttore della Sala stampa vaticana padre Lombardi a seguito delle proteste del mondo ebraico
dimostra che Benedetto XVI non se la sente di ignorare la voce ebraica. Non ne è capace? Non si
sente sufficientemente forte per farlo, gestendo la beatificazione di Pio XII come un affare del tutto
interno alla Chiesa, così come Giovanni Paolo II aveva gestito la beatificazione di Edith Stein
(filosofa ebrea convertita al cattolicesimo, suora carmelitana col nome di Teresa Benedetta della
Croce, morta ad Auschwitz nel 1943, beatificata nel 1987, canonizzata e proclamata patrona d
´Europa nel 1998) nonostante le proteste di alcuni settori del mondo ebraico? Oppure invece
Benedetto XVI ha a cuore immensamente il dialogo col mondo ebraico (il frutto più bello del
Vaticano II dopo secoli e secoli di inimicizia e persecuzioni) e non lo vuole compromettere in
nessun modo e per questo è propenso persino a rallentare nella sua ferma determinazione di
beatificare papa Pacelli? Chissà come stanno davvero le cose, non ci sono elementi per poter
risolvere la questione, io posso solo dire che mi piace pensare che per Benedetto XVI il dialogo col
mondo ebraico sia molto più importante della beatificazione di un suo predecessore. Il che, se è
vero, significa che il dialogo con l´ebraismo ha per Ratzinger un valore immenso, perché non ci
sono dubbi che egli voglia quanto prima giungere alla beatificazione di Pio XII e porre un altro
tassello per anestetizzare del tutto il carattere innovativo del Vaticano II e le sue interpretazioni in
tal senso.

Pio XII è il papa che aveva rimosso dall´insegnamento ed esiliato i teologi poi nominati
periti conciliari da Giovanni XXIII e che furono l´anima del Vaticano II. La sua beatificazione
corrisponderebbe a una definitiva sedazione dell´effervescenza conciliare, al compimento della
restaurazione,
per la gioia dei lefebvriani che finalmente potrebbero considerare il ritorno nel seno
della Chiesa cattolica. E quanto questo sia nel cuore di Benedetto XVI è sotto gli occhi di tutti. Se
non ci fossero le proteste ebraiche sarebbe solo questione di pochissimo tempo, ma le proteste
ebraiche ci sono e per questo le mormorazioni di padre Gumpel di sei mesi fa vanno prese molto sul
serio.  Ma a quale prezzo ieri è stata proposta la precisazione vaticana? Al prezzo di una duplice
disgiunzione: quella pratica di Pio XII da Giovanni Paolo II nel loro percorso verso la
beatificazione, e quella teologica delle virtù religiose dalle azioni concrete sul piano storico. Sulla
prima disgiunzione non c´è molto da dire se non esserne felici, se non altro per non ripetere la triste
esperienza di un Giovanni XXIII beatificato insieme a Pio IX, al cui proposito invito i lettori che lo
desiderassero a confrontare il "Sillabo" di Pio IX con la "Gaudium et spes" del concilio voluto da
papa Giovanni per rendersi conto della abissale differenza tra i due papi.

Sulla seconda disgiunzione invece ci sarebbe molto da dire. In che senso, come scrive padre Lombardi, «la valutazione riguarda
essenzialmente la testimonianza di vita cristiana data dalla persona (il suo intenso rapporto con Dio
e la continua ricerca della perfezione evangelica) e non la valutazione della portata storica di tutte le
sue scelte operative»? In che senso la vita cristiana non riguarda le scelte operate storicamente? Non
ha insegnato forse Gesù a proposito dei profeti che «dai loro frutti li potrete riconoscere» (Matteo
7,20)? E come insegna tutta la teologia morale a partire da san Tommaso d´Aquino, la virtù non è
eminentemente pratica? Che cosa sarebbero mai delle virtù religiose incapaci di operare la giustizia
concretamente?
La Sala stampa vaticana ci ha proposto una inusitata distinzione, sconosciuta alla
Bibbia e alla tradizione spirituale. Il papa teologo, diviso tra il desiderio di beatificare il suo
predecessore preconciliare e i timori evocati da padre Gumpel, ha costretto il suo portavoce a una
pericolosa e maldestra innovazione teologica.

Vito Mancuso     la Repubblica  24 dicembre 2009