Sabotaggio al
Concilio
Nell'epistolario conciliare di Helder Camara (1) si avverte, più di quanto
possano le storie
accademiche del Concilio Vaticano II (1962-1965), il palpito del profetismo
della Chiesa "serva e
povera" misurarsi con il sistema vaticano, ma anche con le esigenze di
equilibrio di Paolo VI per
riformare la Chiesa senza rischiare fratture. La curia non sopportava il regime
di "Chiesa
provvisoria", creato dal più vasto dibattito della sua storia millenaria, e
questi documenti
confermano dal vivo che in Vaticano si lavorava per la chiusura del Concilio
prima della seconda
sessione (furono invece 4) e per la liquidazione delle riforme. Le lettere
descrivono le tecniche del
sabotaggio. Il migliore alleato del vescovo brasiliano, il primate belga
cardinale Suenens, prevedeva
fin dall'ottobre del '65 che “se la curia continuerà a essere la stessa metterà
a rischio tutto lo spirito
del Vaticano II; il pericolo di persecuzioni contro i "progressisti" e contro
coloro che si battono per
una curia rinnovata sarà reale».
Il fervore creativo di Camara si salda alla sua capacità di analisi della
complessità della sfida di
rappresentare in un'assemblea egemonizzata dagli europei le aspettative del
Terzo Mondo per una
Chiesa «che si faccia un bagno di Vangelo e diventi serva invece di essere
Signora». Chiede a Paolo
VI, che lo venerava, di strappare il papato al ruolo di re temporale con misure
concrete: il congedo
del corpo diplomatico, la chiusura delle nunziature, l'abbandono del Vaticano al
servizio della
cultura sotto il patrocinio dell'Unesco. Il prestigio del Papa forse crollerebbe
se si sbarazzasse dei
beni «che scandalizzano tanto»? Però, obietta Camara, l'essenziale per un Papa
non è il prestigio,
essenziale è «che faciliti alla gente l'identificazione fra Cristo e il suo
rappresentante sulla terra.
Essenziale è che l'umanità non veda nella Chiesa un Regno in più, un impero in
più”. Vorrebbe
l'abolizione della festa di Cristo Re, l'abbandono della figura del Dio giudice.
Considera letale
l'atteggiamento “di chi si presenta come il possessore del monopolio della
verità e di chi pretende di
ricostruire la cristianità alla moda del mondo medioevale occidentale.”
In anticipo sui tempi, profetizza che il Papa chieda perdono agli Ebrei, preghi
coi musulmani,
ascolti anche gli Atei, si circondi di un consiglio di vescovi e veri laici
(“non clericali”) per
governare la Chiesa. Sollecita una nuova enciclica sociale che ispiri etica e
spiritualità dello
sviluppo e una dottrina sulla giustizia sociale su scala globale e non
eurocentrica come le altre: è il
seme della Populorum progressio. Il linguaggio di una Chiesa «divisa tra uomini
che vivono sulla
terra e teologi che vivono sulle nuvole» gli appare poco universale, astratto,
moralistico,
condizionato da un anticomunismo unilaterale: «Se non partiamo dai segni dei
tempi non saremo
ascoltati. Se sbattiamo all'inizio i nostri grandi misteri i moderni aeropagiti
ci lasceranno a parlare
alle mosche».
Cosa è rimasto dei semi sparsi quando si svegliava prima dell'alba a pregare
e scrivere le lettere dei
suoi Angeli agli amici? All'ombra della statua equestre di Costantino in San
Pietro, il "vescovo
rosso" rabbrividiva presentendo quel «mostro di pietra al galoppo in Basilica
con in groppa il Re».
Dopo oltre 40 anni la sua domanda riecheggia: «Chi ha detto che l'era
costantiniana è finita?».
(1) Helder Camara, Roma, due del mattino, Lettere dal Concilio Vaticano II, San
Paolo, Cinisello
Balsamo, pp. 500, € 28
Giancarlo Zizola Il Sole 24 Ore
18 maggio 2008