Rom, l'invenzione
del razzismo
La vicenda della cacciata dei rom dalla Francia ruota intorno a due paradossi.
Il primo riguarda le
motivazioni che hanno indotto Nicholas Sarkozy ad espellere 700 «zingari», in
parte cittadini
francesi. Com'è noto, si tratta di ragioni politiche. Il presidente è in caduta
libera nei sondaggi.
L'emorragia di consensi al centro e a destra rischia di tramutarsi in una
disfatta per lo scandalo
Bettencourt. Da qui la mossa razzista. I rom (tutti) sono ladri e potenziali
assassini. E restano
stranieri, benché cittadini francesi. Cacciarli serve a difendere la sicurezza e
la purezza della
nazione.
Dove sta il paradosso? Nel fatto che il nesso tra misure
razziste e motivazioni politiche non è affatto atipico e non costituisce
aggravante. È assolutamente classico, e la chiarezza persino sfrontata con la
quale si dichiara in questa vicenda fa di essa un caso di scuola che va
considerato con la massima
attenzione.
Il razzismo non è qualcosa che prescinda dalla politica (dalla ricerca del
consenso per il governo dei corpi sociali). È uno strumento squisitamente
politico. Consiste nella produzione di soggettività deteriori (per mezzo di
stereotipi) e nella finalizzazione di passioni e paure diffuse, che vengono
incanalate contro i gruppi (le «razze») additati come diversi e stranieri,
colpevoli e nemici. Non c'è
razzismo che operi in autonomia dal gioco politico. La sua apparente «purezza»
concerne il terreno
dell'ideologia: il consenso si ottiene nascondendo (magari anche a se stessi) le
ragioni politiche
dell'«invenzione delle razze».
Il meccanismo è sempre questo. Nel caso dei rom cacciati da
Sarkozy è soltanto evidente. Come
pure nei proclami di Roberto Maroni e di Letizia Moratti già in piena campagna
elettorale, che
meriterebbero qualche riflessione da parte di chi ha a cuore quanto resta della
civiltà in questo
paese. Pur di portarsi dietro le masse padane, si alimenta l'odio «etnico»
contro gli stranieri poveri,
promettendo politiche conseguenti. È un gioco pericoloso, perché le
aspettative esigono poi
soddisfazione. Che cosa significherà tra qualche anno, avanti di questo passo,
essere straniero - o
anche solo povero - in Italia?
Veniamo al secondo paradosso. Se il razzismo è un
dispositivo politico volto a produrre e
manipolare il consenso, esso non riguarda soltanto le «razze» qui e ora
considerate tali, ma la
società intera. Non è affare di margini e periferie, ma di tutto il territorio
sociale. Faremmo quindi
bene a non occuparcene soltanto quando si tratta di «zingari» o di «negri».
In realtà siamo tutti in questione, e non solo come massa di manovra (come base
elettorale). La
produzione di identità stereotipizzate è un ingrediente fondamentale nella
legittimazione delle
gerarchie sociali. Da questo punto di vista il catalogo delle «razze»
(di nome o di fatto) è molto più
ricco di quanto si pensi. A meno di non credere all'esistenza di «razze umane»,
non c'è ragione per
separare gli stereotipi che razzizzano migranti ed ebrei da quelli inventati per
criminalizzare i
«devianti» (omosessuali, transessuali e tossici) o per giustificare la
subordinazione delle donne e dei
lavoratori dipendenti.
Il senso comune recalcitra? Certamente. Il discorso razzista
non impera invano da secoli
nell'immaginario europeo. Ma per respingere il ragionamento, il senso comune è
costretto a
invocare presunte peculiarità «naturali» dei gruppi esplicitamente razzizzati,
scoprendosi razzista.
La critica dev'essere conseguente. Come non c'è alcun gruppo umano a buon
diritto trasformato in
«razza», così non c'è stereotipizzazione inferiorizzante che non sia razzista.
A danno di chiunque
essa si compia.
Allora, tra chi (la Commissione europea) accusa la Francia di violare le regole
sulla «libera
circolazione e la libertà di scegliere il posto dove vivere» e chi (il governo
francese) sostiene la
legittimità delle misure adottate, ha paradossalmente ragione quest'ultimo. Non
per il turpe
escamotage dei 300 euro che trasforma l'espulsione dei rom in esodo volontario,
ma per un fatto
molto serio, del quale raramente si ha consapevolezza.
Nelle società democratiche le gerarchie sociali (di censo e
potere) debbono essere giustificate e gli
stereotipi servono a tal fine. Poco importa che si parli di propensione alla
violenza e al crimine
piuttosto che di inferiorità mentale o di incoercibile ignavia di «fannulloni».
Per questo
l'«invenzione delle razze» resta, nonostante Auschwitz, un cardine della
modernità.
I tecnocrati di Bruxelles sono degli ipocriti: a quanti europei è di fatto
possibile scegliere il posto in
cui vivere? Sarkozy in crisi di consenso segue un copione classico da almeno due
secoli in Europa.
Quanto a noi, faremmo bene a ripensare a tutto questo sforzandoci di liberare le
nostre idee dalle
ipoteche dell'ideologia. La battaglia contro il razzismo non è uno specialismo
di filantropi, ma un
aspetto cruciale della lotta di classe.
Alberto Burgio il manifesto 26 agosto 2010
“Questa
intolleranza può creare in Europa un effetto domino”
intervista a mons. Giancarlo Perego, a cura di Giacomo Galeazzi
"L’Italia ha dato il cattivo esempio alla Francia e ora va subito fermato
l'effetto-domino che rischia di
infiammare il resto d'Europa e contagiare soprattutto i paesi orientali".
Mette in guardia dal
«meccanismo di intolleranza verso i Rom innescato dall'Italia» monsignor
Giancarlo Perego,
direttore generale della Fondazione Migrantes della Cei.
Cosa c'entra il governo di Roma con le espulsioni dei rom in Francia?
«E' a partire dalle errate politiche dell'immigrazione del governo italiano che
in Europa si è messo
in moto un "effetto moltiplicatore" che sta producendo gravi danni sociali in
Francia. Abbiamo di
fronte una situazione potenzialmente esplosiva che può sfuggire di mano alle
autorità nazionali e
che soprattutto ad Est (Ungheria e Slovacchia) minaccia oggi di assumere forme
particolarmente
violente di intolleranza contro un popolo già ai margini e sempre più duramente
provato dalla
situazione di disagio economico generalizzato».
Di chi è la colpa?
«A forza di irresponsabili campagne propagandistiche e di provvedimenti
demagogici a livello
centrale e locale, è stata addebitata ai rom la colpa delle difficoltà
economiche delle famiglie
italiane. In pratica, queste popolazioni nomadi sono state trasformate in
capri espiatori per spostare
strumentalmente l'attenzione dell'opinione pubblica dalle vere cause della crisi».
Nelle discriminazioni esiste un «modello Italia» esportato in Europa?
«Purtroppo sì. E' un meccanismo pericoloso che, una volta avviato, finisce fuori
controllo, in
direzione di un'escalation di discriminazioni, violenze e persecuzioni.
Con indecente mistificazione
in Italia i rom sono stati ritenuti e indicati all'opinione pubblica come i
responsabili di mali sociali
che invece sono legati ai mondi finanziari e politici. Assistiamo a un'azione
demagogica e
strumentale per gettare fumo negli occhi alle famiglie italiane pesantemente
colpite dalla crisi
economica. Si usa spregiudicatamente un popolo inerme per nascondere la reale
origine dei
problemi, e cioè i tagli al Welfare e gli errori nelle politiche migratorie. Il
pessimo esempio italiano
sta facendo scuola in Europa.
I rom impoveriscono un paese?
«Assolutamente no. Le famiglie non devono certo il loro disagio a qualche
centinaio di rom che ora
si vuole allontanare a forza, bensì da bufere finanziarie globali e dai
radicali tagli alla spesa sociale
che penalizzano la vita quotidiana delle persone. Il contesto italiano
ed europeo è segnato da
intolleranze che i governi invece di contrastare favoriscono con politiche
sbagliate. Come ha
ricordato anche il cardinale Bagnasco nella sua ultima prolusione, in Italia
esistono situazioni
dolenti e discriminazioni allarmanti emerse con i fatti di Rosarno e con
l’incendio di un campo rom
alla periferia milanese. Manca l'impegno per una fondamentale strategia di
integrazione degli
immigrati e di ogni altra minoranza, come quella dei rom. Servono il superamento
di quartieri o
isole etniche nelle città, una nuova politica fiscale, della casa,
dell’accompagnamento sociale e della
sicurezza sociale. La "città di eguali" va costruita coniugando
l'accoglienza con la tutela dei diritti
fondamentali delle persone e, tra i valori non negoziabili anche in politica,
c'è un'accoglienza
rispettosa delle leggi e mirata a favorire l’integrazione».
La Stampa 22 agosto 2010