Il rischio di quegli osanna


In una società con tradizioni culturali e meccanismi elettorali segnati dalla personalizzazione delle
sfide, non sorprende che chi è o sa apparire portatore di cambiamenti desti attese e susciti speranze
dai tratti messianici. Soprattutto se mostra capacità di dialogare con le persone a cui si rivolge, se
riesce a far sentir loro che le considera non come massa ma come parti di un corpo solidale, un
corpo che nutre sogni condivisi e che è consapevole del fatto che «insieme possiamo farcela».
Non stupisce allora che alla fine del discorso con cui Obama ha annunciato di aver vinto la corsa
alla Casa Bianca, questa interazione tra il candidato e i suoi sostenitori abbia assunto tratti tali da
richiamare la dialettica tra coro e protagonista propria della tragedia greca o la dimensione della
litania alternata tipica di alcune celebrazioni liturgiche. Rievocare i passaggi salienti della storia
della democrazia americana nell’ultimo secolo, ricordarne le lotte, le difficoltà, i sogni e le speranze
e suscitare nell’uditorio l’adesione esplicita e ritmata - «Sì possiamo farcela» - non attiene allora
unicamente alla conoscenza e all’abilità nell’uso del «mezzo che è il messaggio», ma riveste una
dimensione più profonda, interiore.
Non basta infatti padroneggiare l’arte oratoria, non basta mutuare meccanismi e strumenti tipici dei
concerti live o dei mega-raduni - come sovente avviene in quel paese anche in ambito di
celebrazioni religiose ed ecclesiali - non basta far leva sull’emotività. Bisogna aver creato qualcosa
prima, più in profondità, in quello spazio di interiorità dove ciascuno coltiva più o meno
consapevolmente la propria dimensione spirituale. E per fare questo bisogna saper ispirare fiducia,
attivare un dialogo, creare una dimensione che è comunitaria e non solo collettiva. Bisogna che
ciascuno, indipendentemente dal colore della sua pelle, dalla sua storia, dalle sue sofferenze, senta
di essere parte di una realtà più grande, dove i sogni e i bisogni di ciascuno sono presi in carico da
tutti, superando individualismi e divisioni.

Certo, vedere e sentire migliaia di persone rispondere ai sogni rievocati come imprese del passato e
impegni per il futuro con una formula analoga all’amen delle liturgie - «Sì, è così, lo possiamo!» ha
un forte impatto, soprattutto quando l’attesa si è caricata di ricordi e di speranze di altri tempi, di
stagioni che avevano visto i narratori di un sogno come Martin Luther King e Robert Kennedy
finire brutalmente assassinati. Eppure, in questa sorta di liturgia catartica si cela anche una
pericolosa insidia: se quel flusso di dialogicità si interrompe, se la percezione di essere ascoltati e
capiti si spezza, se la realtà quotidiana della convivenza nella polis contraddice il sogno comune
intravisto come possibile, saranno proprio i tratti messianici a rivoltarsi in delusione cocente: troppe
volte nella storia abbiamo visto gli osanna mutarsi repentinamente in «crucifige». Sì, cantare
insieme la speranza significa anche non delegare a una sola persona, per quanto carismatica, il
faticoso lavoro di costruire insieme un futuro più giusto.

Enzo Bianchi     La Stampa 6 novembre 2008