Riorganizziamo la speranza


Dopo alcuni giorni di mutismo da risultato elettorale la sensazione di non aver capito molte cose mi porta a chiedere e discutere di quello che c’è da fare, di come ripartire
Molto prima delle elezioni quella che abbiamo perso è una egemonia culturale
Provare a ricostruirla pezzo dopo pezzo è quel che ci tocca oggi


Era aprile anche sessant’anni fa, nel ’48. È cambiato il mondo, ma il compito che spetta a chi ne ha voglia è quello di allora: organizzare la speranza. Dopo alcuni giorni di mutismo da risultato elettorale, e sotto botta di nuovo per Roma, la persistente sensazione di non aver capito molte cose mi porta a chiedere e discutere.
Chiedo e discuto con chi incontro, e soprattutto con i giovani, di quello che c’è da fare ora, di come ripartire da qui per andare avanti.
Mi colpiscono, nei discorsi di tanti, la tendenza a rimpallarsi le responsabilità, cosa che vediamo anche in sedi pubbliche, e più mi colpisce un aggrapparsi frenetico ad ipotesi organizzativistiche che mi lasciano abbastanza sconcertata. E, con quel che è successo a Roma, temo che tutto questo possa ancora peggiorare.
Se la costruzione del Partito Democratico è ancora in larga parte da fare, infatti, ed ha bisogno del lavoro di molti perché attorno a Veltroni, e poi giù giù per li rami, si costituiscano gruppi dirigenti in grado di condurre una battaglia d’opposizione convincente, credo che quello che è successo con le elezioni chiami in più tutti noi ad una riflessione approfondita su quale cultura sta dietro e sotto quel risultato. C’è bisogno di pensieri nuovi: anche piccoli, anche parziali, anche di quelli che danno risultati chissà quando. Qualcosa di cui c’è bisogno da tempo, e che sarebbe stato molto difficile sperimentare insieme agli impegni di governo: adesso, proprio la sconfitta ci dà la possibilità della pazienza, senza l’acqua alla gola della governabilità (e di elezioni politiche a breve scadenza, ahimé), di sperimentare terreni nuovi di pensiero e anche di attività concrete.
Provo a fare qualche esempio, scaturito da discussioni con amici e compagni.
Come molte donne, non ho più voglia di andare a manifestazioni contro la violenza. Penso che la violenza e il femminicidio siano una questione dei maschi; noi il lavoro di autocoscienza l’abbiamo fatto e in qualche modo continuiamo a farlo, ora tocca a loro interrogarsi, discutere, scavare. Interrogandosi, discutendo, scavando, guardando in faccia il connotato quasi totalmente maschile dell’aggressività violenta, potrebbe forse venir fuori, fra l’altro, uno sguardo un po’ diverso sulla sicurezza, tema che tanto ha condizionato e condiziona le campagne elettorali, in una gara non sempre nobile fra destra e sinistra. E potrebbe venir fuori, magari, anche qualche riflessione più avanzata su cosa significa oggi il tifo calcistico, trasformatosi da sublimatore di violenza in collettore e momento organizzativo della violenza (assalti alle caserme non ne avevamo visti neanche negli anni di piombo). Cosa significhi in termini di spesa, e di nuovo anche in termini di sicurezza generale, quando le forze dell’ordine sono smisuratamente impegnate in contrasto della violenza legata ad avvenimenti sportivi.
Altro esempio: i gruppi di acquisto locali, e più in generale le varie forme di consumo diverso. Al di là del risparmio che si può conseguire, e dell’eventuale migliore qualità dei prodotti, da qui potrebbe scaturire qualche ragionamento più avanzato sull’emergenza rifiuti non in Campania ma ovunque (e anche su questo, mi sembra che nessuno abbia in tasca la soluzione), e più in generale - più in alto - una riflessione su cosa significhi “progresso”, parola che sempre ha connotato la sinistra, in un mondo che dal progresso della produzione e dei consumi rischia di essere distrutto. E se invece, partendo dalla spesa quotidiana, si affrontasse pian piano il ragionamento su un modo diverso di misurare il benessere, non più soltanto in termini di Pil ma anche sotto il profilo del ben-essere vero, fatto di un modo più felice di vivere?
Sento già le obiezioni: anche a crederci, sono tentativi di nicchia, riguarderebbero poche persone, e invece la politica non consente vuoti, ci saranno le elezioni europee e le amministrative e...
Lo so anch’io. Ma visto che scrivo in un giorno fra il 25 aprile e il Primo maggio, date antifasciste per eccellenza, mi viene in mente che anche i resistenti, all’inizio, erano in pochi. Erano tutto sommato pochi anche i troppi condannati dal Tribunale Speciale fascista, che comminò loro anni e anni di confino e galera. Separati dal mondo che avrebbero voluto cambiare, al confino e in galera quei condannati studiavano e studiavano: qualcuno definì la fortezza di Civitavecchia «l’università del carcere», perché lì si formò una parte notevole di quelli che, dopo la Liberazione, sarebbero stati i Padri costituenti, la classe dirigente italiana. L’idea di un’Europa unita nacque nel confino delle isole pontine, proprio mentre l’Europa sembrava destinata a sbranarsi per l’eternità. Resistenza fu anche, insomma, imparare a capire, ad elaborare nuove idee. Nelle condizioni possibili. Consapevoli di essere minoranza, ma convinti di doversi dotare degli strumenti per farsi maggioranza. Egemone.
Prima, molto prima delle elezioni, quella che abbiamo perso è un’egemonia culturale. Provare pazientemente a ricostruirla, pezzetto per pezzetto, credo sia quel che ci tocca oggi. E se poi avremo un Gramsci in grado di mettere insieme i pezzetti e renderli idee-forza, tanto meglio: ma, se non succederà, almeno il nostro pezzetto lo avremo fatto. E un pezzetto è sempre meglio, molto meglio di niente.

Clara Sereni       l'Unità 29.4.08