Ricordiamola come persona. Non diventi una bandiera

Dopo una battaglia perduta, disse Wellington cavalcando la sera fra i cadaveri di Waterloo, la cosa
più orribile è una battaglia vinta. Ogni Te Deum che glorifica una sconfitta inflitta a un nemico e
ringrazia Dio, declassandolo a complice alleato, è blasfemo: l’unica preghiera, in circostanze simili,
è il De Profundis. Non è il caso di ricordare, un anno dopo, la morte di Eluana Englaro come una
vittoria. Non è il caso di intonare le retoriche e benpensanti fanfare del progresso, dei diritti civili e
della luminosa sconfitta dell’oscurantismo religioso; sarebbe oltraggioso nei confronti del suo
tragico destino (una tragedia non è mai un trionfo) e della sofferenza di chi si è trovato a decidere il suo destino.

È augurabile che non si ripeta la profanazione di un anno fa, che ha visto troppi cinici
approfittare di quel suo destino per cogliere allori politici. Il dilemma che la sua sorte poneva un
anno fa è tragico, in quanto moralmente irresolubile. A differenza dalla sua fase iniziale, in quella
finale la vita non conosce un punto preciso in cui possa considerarsi conclusa; si sa quando si
abortisce, interrompendo l’esistenza di un individuo, ma è difficile sapere quando sia lecito o
pietoso staccargli la spina, quando esattamente scatti il cosiddetto accanimento terapeutico, che
spesso risulta evidente al buon senso (peraltro anch’esso talora pasticcione e confuso con un vago
stato d’animo) ma che può essere pure un comodo espediente— lo è talvolta per la Chiesa— per
salvare capra e cavoli, la sacralità della vita e il dovere di non protrarla assurdamente oltre
determinate condizioni.

Il criterio della cosiddetta qualità della vita è molto ambiguo; comunque solo l’interessato — e non
altri per lui — può decidere quale sia la qualità della sua vita accettabile per non uscire di scena.
Solo l’interessato può decidere sulla propria vita e sulla propria morte e togliere il disturbo quando
crede, come facevano con serenità gli antichi, condizionato solo dalla propria eventuale
responsabilità verso altre persone.
Anche sotto questo profilo, i problemi posti dall’eutanasia non
hanno nulla a che vedere con quelli posti dall’aborto, in cui la decisione non è presa— tranne che
nel caso dell’aborto terapeutico — pensando al bene dell’interessato, alla sua vita e alla sua morte.

Un anno fa, dinanzi alla sorte di Eluana Englaro, c’era la testimonianza di suo padre su una sua
volontà di non ricorrere ad accanimenti terapeutici. Per tale ragione, mi è sembrato e mi sembra che
la decisione presa a suo riguardo fosse la meno ingiusta. Proprio per tali ragioni, è auspicabile il
cosiddetto testamento biologico
. Per quel che mi concerne, faccio mia la decisione formulata
concordemente dalla Conferenza Episcopale Tedesca presieduta dal cardinale Lehmann e
dall’Unione delle Chiese Protestanti Tedesche, in cui si dichiara che, in condizioni di impossibilità
di esprimere la propria volontà e di totale infermità psicofisica (non suscettibile, secondo le
conoscenze della medicina disponibili, di miglioramenti), si rinuncia a ulteriori terapie.
Non ritengo
che tale posizione sia migliore — i benpensanti direbbero «più aperta» o «più avanzata» — di chi,
come alcune amiche e amici a me particolarmente vicini, continua da anni a vivere con persone care
in condizioni di apparente totale inerzia, proseguendo con loro un misterioso dialogo. Del resto le
parole forse più alte contro l’idolatria della vita a ogni costo e contro l’idolatrico rifiuto della morte
ad ogni costo le hanno dette alcuni studiosi cattolici, ad esempio Klaus Demmer e Sandro Spinsanti
in alcune voci del Nuovo Dizionario di Teologia Morale delle edizioni San Paolo.

In ogni caso, quando si decide di spegnere, per quello che si ritiene il suo bene, una vita
sostanzialmente già spenta, bisogna avere il coraggio di rifiutare ogni ipocrisia:
non solo togliere
acqua, ma anche staccare la spina o fare un’iniezione letale, senza illudersi che nel primo caso non
si dia la morte, perché la si dà esattamente come se si toglie una spina.
Ma — ed è questo che conta oggi, in questo anniversario — Eluana Englaro non è esistita solo dopo
quel 18 gennaio 1992,
dopo l’incidente che l’ha ridotta a passare anni in coma profondo, conclusosi
come sappiamo. Lei è anche — soprattutto? — la donna degli anni precedenti, con i suoi
sentimenti, le allegrie, le malinconie, gli errori, i giochi che avrà avuto e goduto, non meno
significativi, nell’eternità della sua esistenza nell’universo, della sua sventura.

Identificarla con la sua agonia, con la sua fine e con le dispute sulla sua fine, arreca offesa alla sua persona. È illecito
farne un simbolo, un’icona, una bandiera per battaglie future su quei temi, perché lei è stata ed è
Eluana, non un’icona né una bandiera.


Claudio Magris      Corriere della Sera  10 febbraio 2010