"Liberare il fondo di bontà":
un incontro con Paul Ricoeur
Irruzioni di bontàChe cosa vengo a cercare a Taizé? Direi una
specie di sperimentazione di ciò che più profondamente credo, e cioè che
quello che generalmente si chiama «religione» ha a che fare con la bontà. Le
tradizioni del cristianesimo lo hanno un po’ dimenticato; c’è un
restringersi, un rinchiudersi nella colpevolezza e nel male. Non sottovaluto
per niente questo problema, che mi ha occupato per diversi decenni, ma ciò
che ho bisogno di verificare è che per quanto radicale sia il male non è
così profondo come la bontà, e se la religione, le religioni, hanno un
senso, è proprio quello di liberare il fondo di bontà degli esseri
umani, di andare a cercarlo là dove si è completamente nascosto.
Ora, qui a Taizé, vedo, in qualche modo, delle irruzioni di bontà, nella
fraternità tra i fratelli, nella loro ospitalità tranquilla, discreta e
nella preghiera. Vedo migliaia di giovani che non esprimono un’articolazione
concettuale del bene e del male, di Dio, della grazia, di Gesù Cristo, ma
che hanno un tropismo fondamentale verso la bontà.
Il linguaggio della liturgia
Siamo sommersi dai discorsi, dalle polemiche, dall’assalto del virtuale che,
oggi, creano come una zona opaca. Ora,
la bontà è più profonda del
male più profondo. Dobbiamo liberare questa certezza, darle un
linguaggio, e il linguaggio che viene dato qui a Taizé non è quello della
filosofia, neppure della teologia, ma quello della liturgia; e per me, la
liturgia non è semplicemente azione, è un pensiero. Nella liturgia c’è una
teologia nascosta, discreta che si riassume nell’idea che «la legge della
preghiera è la legge della fede».
Passare dalla protesta all’attestazione
Direi che la questione del peccato è stata come spostata dal centro da una
questione forse più grave: la questione del senso e del non-senso,
dell’assurdo (…). Noi veniamo dalla civilizzazione che effettivamente ha
ucciso Dio, cioè che ha fatto prevalere l’assurdo e il non-senso sul senso,
però questo provoca una profonda protesta. Uso questa parola che, nel senso,
è vicina alla parola attestazione, perché l’attestazione adesso procede
dalla protesta che il nulla, l’assurdo, la morte non sono l’ultima parola.
Questo raggiunge la mia questione sulla bontà poiché la bontà non è soltanto
la risposta al male, ma è anche la risposta al non-senso. Nella protesta c’è
la parola «testimone»: si pro-testa prima di poter at-testare.
A
Taizé si fa il cammino dalla protesta all’attestazione e questo
cammino passa attraverso la legge della preghiera, la legge della fede. La
protesta è ancora nel negativo: si dice no al no, e qui bisogna dire sì al
sì. C’è quindi un movimento di pendolo dalla protesta all’attestazione, e
credo che si faccia attraverso la preghiera. Sono stato toccato, questa
mattina, dai canti, queste preghiere in forma di vocativo: «O Christe». Cioè
non siamo né nel descrittivo, né nel prescrittivo, ma nell’esortativo e
nell’acclamazione!
E penso che acclamare la bontà, ebbene, sia
l’inno fondamentale.
«Chi ci insegnerà la felicità?»
Mi piace molto la parola felicità. Per molto tempo ho pensato che era o
troppo facile o troppo difficile parlare della felicità, e poi ho superato
questo pudore, o meglio ho approfondito questo pudore di fronte alla parola
felicità. La prendo in tutta la varietà dei suoi significati, compreso
quello delle beatitudini. La formula della felicità è: «Beato chi…».
Saluto la felicità come una «ri-conoscenza» nei tre sensi della
parola. La riconosco come mia, l’approvo negli altri e ho della gratitudine
per ciò che ho conosciuto della felicità, e delle piccole felicità, tra le
quali, le piccole felicità della memoria, per guarirmi delle grandi
infelicità dell’oblio. E qui funziono nello stesso tempo come filosofo,
nutrito dei greci e come lettore della Bibbia e del Vangelo dove si può
seguire il percorso della parola felicità. Ci sono come due registri: il
meglio della filosofia greca è una riflessione sulla felicità, la parola
greca eudeimon, come in Platone e Aristotele, e, d’altra parte, mi ritrovo
molto bene nella Bibbia. Penso all’inizio del Salmo 4: « Chi ci farà vedere
il bene?». E’ una domanda retorica, ma che ha la sua risposta nelle
beatitudini, e le beatitudini sono l’orizzonte di felicità di una vita posta
sotto il segno della benevolenza, poiché la felicità non è semplicemente ciò
che non ho, ciò che spero di avere, ma anche ciò che ho gustato.
Tre immagini di felicità
Recentemente riflettevo sulle
immagini della felicità nella vita.
Riguardo alla creazione: un bel paesaggio di fronte a me, la felicità è
l’ammirazione. Poi, seconda immagine, riguardo agli altri: nella
riconoscenza degli altri e, sul modello nuziale del Cantico dei Cantici, è
il giubilo. Poi, terza immagine della felicità, rivolta verso il futuro, è
l’aspettativa: mi aspetto ancora qualcosa dalla vita. Spero di avere il
coraggio del dolore che non conosco, ma mi aspetto ancora della felicità.
Uso la parola aspettativa, potrei usarne un’altra che viene dalla lettera ai
Corinzi, dal versetto che introduce il famoso capitolo 13, sulla «carità che
comprende tutto, scusa tutto». Questo versetto dice: «Aspirate ai doni più
grandi». «Aspirate»: è la felicità d’aspirare che completa la felicità del
giubilo e la felicità dell’ammirazione (…).
Un servizio gioioso
Ciò che mi colpisce qui, in tutti i piccoli servizi quotidiani della
liturgia, negli incontri d’ogni tipo, nei pasti, nelle conversazioni è
l’assenza completa di relazioni di dominio. A volte ho l’impressione che, in
questa specie d’accuratezza paziente e silenziosa di tutti gli atti dei
membri della comunità, tutti quanti obbediscono senza che nessuno comandi.
Da questo risulta un’impressione di servizio gioioso, come dire,
d’obbedienza amante, sì, d’obbedienza amante, che è proprio il contrario di
una sottomissione e il contrario di un vagabondare. Questa via, generalmente
stretta, tra ciò che ho appena chiamato sottomissione e un vagabondare qui è
largamente segnalata, indicata dalla vita comunitaria. Ora, è di questo che
noi, partecipanti (non quelli che assistono, ma quelli che partecipano) come
credo di esserlo stato e di esserlo qui, beneficiamo. Beneficiamo di questa
obbedienza amante che abbiamo precisamente verso l’esempio
che ci è dato.
La comunità non impone una specie di modello
intimidatorio, ma una sorte d’esortazione amichevole. Mi piace
questa parola esortazione, poiché non siamo nell’ordine del comando e ancora
meno dell’obbligo, ma non siamo neppure nell’ordine della diffidenza e
dell’esitazione, che oggi è la sorte della vita nei mestieri, nella vita
urbana, nel lavoro come nel divertimento. E’ questa tranquillità condivisa
che per me rappresenta la felicità della vita presso la comunità di Taizé.