Retoriche del
disumano
Dunque, le cose stanno così.
C'è un piccolo numero di persone, quelle che stanno in alto, più in alto di
tutti, dichiarate per legge
al di sopra di ogni giudizio. Investite, in quanto tali, per ciò che sono non
per ciò che possono aver
fatto, del privilegio dell'impunità. E ce ne sono altre, più numerose, ma
razzialmente delimitate,
separate dai buoni cittadini da un confine etnico - quelle che stanno in basso,
più in basso di tutti,
considerate invece, per legge, in quanto tali, per ciò che sono, non per ciò che
possono aver fatto,
colpevoli. Almeno potenzialmente. Pre-giudicate.
Alle prime non si guarderà mai in tasca, anche se fossero colte, per un accesso
di cleptomania, in
furto flagrante; alle seconde si prendono fin da bambini le impronte digitali,
le si fotografano,
perquisiscono, spostano, schedano e controllano senza limiti, come appunto con i
delinquenti
abituali, o per natura.
Questa è oggi, sotto il profilo giuridico e politico, l'Italia. In un solo
consiglio dei ministri i due
estremi che definiscono i nuovi confini sociali e morali della costituzione
materiale della «terza
repubblica» sono stati mostrati a tutti, come in un'istantanea.
In pochi mesi, in nome dell'ammodernamento e dell'innovazione nell'arte del
governo, abbiamo
abbattuto ad uno ad uno alcuni dei pilastri fondamentali della modernità, a
cominciare
dall'universalismo dei diritti. Dal principio dell'eguaglianza dei cittadini di
fronte alla legge. Dal
carattere personale della responsabilità giuridica. L'immagine che offre oggi il
Paese è quella di un
ritorno brutale, rapido, in buona misura inconsapevole, ma devastante, alle
logiche di una società di
caste: universi sociali separati e gerarchicamente sovrapposti. Signori, e
servi. Eletti, e paria.
Uomini, e topi.
È un'immagine inguardabile. Dovrebbe produrre un moto istintivo di disgusto,
repulsione,
vergogna, in chiunque si sia formato nell'orizzonte di valori di una sia pur
debole e moderata
democrazia. Invece non è così. Inutile nascondercelo: lo scandalo è tale solo
per pochi. Tace
miseramente - miserabilmente - quell'ombra di opposizione che non rinuncia a
credersi e a fingersi
governo senza più esserlo. Tacciono pressoché tutti gli opinion leaders (quelli
che magari si
commuovono per Obama, ma lasciano correre sulla schedatura del popolo rom). Con
poche, nobili
per questo, ma limitatissime eccezioni. Tace, e in qualche misura acconsente,
anche quell'opinione
pubblica fino a ieri considerabile «di sinistra», socialmente sensibile,
«politicamente corretta»...
Tace, magari soffre, ma tace. Per varie ragioni.
Perché questo ritorno in buona misura irrazionale al pre-moderno,
all'imbarbarimento dello stato di
natura, è argomentato con ragioni «pragmatiche», tecniche, efficientistiche, in
qualche misura a loro
volta «moderne»: perché «serve». Perché «funziona». Perché bisogna «fare».
Maroni non è Goebbels (non ne possiede né il fanatismo né la cultura): non
tratta i rom come
untermenschen - sottouomini - per ragioni «genetiche», ma per ragioni
«pratiche».
Non perché sono razzialmente «inferiori», ma perché razzialmente disturbano i
suoi elettori. La
nuova segregazione razziale ha il volto dell'imprenditore brianzolo dai metodi
spicci ma efficaci,
non più quello dell'ideologo berlinese della razza ariana. E d'altra parte in un
universo sociale
sempre più complesso e indecifrabile, pagano le semplificazioni estreme: la
logica atroce del «capro
espiatorio».
Ma soprattutto la proposta indecente che viene dall'alto trova consenso nella
società che sta in
mezzo - nel grande ventre molle di quelli che cercano faticosamente di restare a
galla nella crisi che
cresce senza affondare sotto la soglia di povertà - perché in tempi di
deprivazione le «retoriche del
disumano» hanno un devastante potenziale di contagio. Chiamo con questo nome le
forme del
discorso che negano un tratto comune di umanità a una parte dell'umanità. Che
con espedienti
retorici pongono un pezzo di umanità al di fuori dell'umanità. Che appunto, in
forma diretta o
indiretta, tracciano un confine tra uomini e non-uomini, producendo un
dispositivo di esclusione e
segregazione. Che separano le persone da trattare «come persone» e quelle da
trattare «come cose».
E in alcune circostanze è drammaticamente gratificante, o comunque rassicurante
- per chi è sempre
più incerto sulla propria identità e sulla propria condizione sociale, per chi
teme di «scendere» o di
«cadere» -, essere riconosciuti «come persone» per differenza da chi tale non è.
Godere del
privilegio di appartenere alla categoria degli «uomini» per differenza da altri,
da questa esclusa. Si
troverà sempre un imprenditore politico spregiudicato, pronto a quotare alla
propria borsa questa
risorsa velenosa, ma potente. Questo acido sociale, che scioglie il timore sul
proprio futuro in
rancore e in consenso.
Questo accade oggi in Italia. La deprivazione economica e sociale che colpisce
una fascia crescente
di popolazione, si converte in deprivazione morale, in un quadro sociale ed
economico che vede
diventare sempre più intoccabile chi sta in alto (sempre meno redistribuibili le
grandi ricchezze), e
sotto la spinta di una retorica politica non più contrastata. Di un ordine
patologico del discorso che
non trova più anticorpi, perché le culture democratiche di fine novecento si
sono consumate,
nell'agire sconsiderato di un ceto politico a sua volta impegnato
prevalentemente a salvare se stesso
dal naufragio. Per chi non ci sta, si apre un periodo di sofferenza e
responsabilità. Di secessione
culturale. Una condizione da esuli in patria. Da apolidi. Per questo la
tentazione di mettersi in coda,
davanti alle Prefetture, per pretendere che siano rilevate anche a noi le
impronte digitali, è grande.
Non tanto per solidarietà. Ma perché siamo noi più che loro - i quali in grande
misura sono cittadini
italiani a tutti gli effetti e risiedono stabilmente sul territorio da decenni -
i veri nomadi.
Marco Revelli il manifesto
29 giugno 2008