Resistenza, le parole che non diciamo più

Le lettere dei condannati a morte della Resistenza non sono state scritte per venire in mano a noi
che le leggiamo. Sono state concepite in un momento della vita che solo a pochi è dato di vivere.
Quel momento terribile e solenne della contemplazione attuale della propria morte, quando in
lucidità e coscienza si è faccia a faccia con se stessi, spogliati di tutto ciò che non è essenziale. Esse
sono indirizzate alla cerchia delle persone più vicine e care, in cui sono riposti gli affetti e da cui
nascono e si alimentano le energie vitali che ci conducono ad agire nel mondo. Questi testi
sconvolgenti parlano della morte freddamente disposta da esseri umani nei confronti di altri esseri
umani e questi ultimi colgono negli ultimi istanti della loro vita, nell'attesa consapevole della fine.

Ogni facoltà spirituale deve essere stata provocata fino all'estremo. La psiche non può essere
sollecitata più di così, dicono coloro i quali, per un motivo inaspettato, sono scampati alla morte e
hanno potuto rendere testimonianza. Le parole scritte in quelle circostanze, soprattutto quelle
svuotate dall'uso quotidiano – amore, affetto, perdono, casa, papà e mamma – , dalla retorica
politica – patria, onore, umanità, pace, fedeltà al giuramento – o dall'estraneità alla nostra diretta
esperienza – torturare, fucilare, impiccare, tradire – tornano d'un colpo a riempirsi di forza e
significato essenziali. Sono parole ultime, destinate a restare chiuse entro cerchie affettive limitate.
Ma chiunque sia disposto a liberarsi per un momento dall'abitudine della mediocrità che tutto
livella, smussa e ottunde, può meditarle in sé, senza intermediari.

Se affrontiamo questa lettura emotivamente gravosa, facciamolo col pudore di chi sa di accingersi a
qualcosa simile a una profanazione, in colloquio diretto e silenzioso, da coscienza a coscienza.
Soprattutto, leggiamo col pudore di chi sa guardarsi dalla presunzione del voler giudicare. Queste
lettere chiedono di comprendere, non di giudicare
. Nessuno di noi – intendo: nessuno di coloro che
non appartengono alla generazione di allora – può pretendere l'autorità del giudice. Se è vero che ci
si conosce soltanto nel momento decisivo della scelta esistenziale e che solo lì ciò che di profondo è latente in noi viene a galla, noi non ci conosciamo.

Non siamo stati messi alla prova. È facile, ma
futile, profferire giudizi e perfino esprimere adesione ideale, ammirazione per gli uni e sdegno o
condanne per gli altri. Dovremmo sempre chiederci chi siamo noi, per voler giudicare. Dovremmo
temere che qualcuno ci dica: ti fai bello di ciò che è di altri; tu forse saresti stato dalla parte dei
carnefici o saresti stato a guardare. E non sapremmo come rispondere.

Conosciamo le condizioni del nostro Paese all'8 settembre del 1943 e immaginiamo quali poterono
essere le molte ragioni, ideali e personali, influenti sulle scelte che allora a molti si imposero.
Nessuno di noi può avere la certezza che, in quelle condizioni ed esposti alle stesse pressioni,
saremmo stati dalla parte giusta e non saremmo stati portati dalle circostanze dalla parte dei
criminali. Questo non significa affatto parificare le posizioni o giustificare i crimini. Significa
cercare di capire, dicendo con franchezza a noi stessi: rendiamo grazie alla provvidenza o alla sorte
perché ci è stato risparmiato di vivere in quel tempo.

La generazione che ha vissuto i fatti di cui parliamo non esiste più. Per le nuove generazioni e,
soprattutto, per chi oggi è ragazzo, non si tratta di rivivere o rievocare vicende in cui vi sia stato un
coinvolgimento anche soltanto indiretto, attraverso il ricordo di chi le visse. Inevitabilmente questi
testi sono letti oggi con un'attutita percezione dell'originario significato politico e impatto emotivo,
nel momento della lotta per la liberazione dall'incubo totalitario, dal nazismo e dal fascismo, nel
momento in cui si coltivava l'aspirazione a un'Italia nuova, giusta, civile, pacificata.
«Sappi che tuo
figlio muore per un alto ideale, per l'ideale della Patria più libera e più bella
», scrive un anonimo.
Gli orientamenti politici erano diversi, ma comune era l'idea, anzi la certezza di un riscatto morale
imminente, che avrebbe trasformato nel profondo, e in meglio, la società italiana. Le Lettere sono
un'elevatissima testimonianza di questa tensione. In tutte si legge la consapevolezza di vivere un
momento di svolta nella storia d'Italia. Il dopo non avrebbe dovuto, né potuto assomigliare al prima.

Ai figli piccoli, che non possono ancora comprendere, si dà l'appuntamento a quando, cresciuti,
sarebbero stati in grado di capire per quale altra Italia i padri e le madri avevano combattuto ed
erano morti. In momenti critici come quelli degli anni '43-'45, non si poteva restare a guardare. Tutti
dovevano contribuire. In molte lettere è testimoniata l'irresistibilità dell'appello a prendere
posizione. «Nel mio cuore si è fatta l'idea (purtroppo non da troppi sentita) che tutti più o meno è
doveroso dare il suo contributo
», scrive una donna ai fratelli, per giustificare, anzi scusare la sua
scelta. Molti sentono così di dover spiegare il perché del loro "aver preposto" l'Idea, la Patria o il
dovere ai legami familiari
e domandano perdono di questo.
Naturalmente, non tutti stavano dalla stessa parte. Nei confronti di chi stava dall'altra, la
disposizione spirituale è molto varia. Alcuni chiedono vendetta. Ma altri parlano del nemico col
rispetto dovuto a chi una scelta, sbagliata ma non necessariamente in malafede, ha pur fatto: «Negli
uomini che mi hanno catturato ho trovato dei nemici leali in combattimento e degli uomini buoni
durante la prigionia
». Altri, ancora, si rimettono a una giustizia superiore, invitando chi resta a fare
altrettanto: coloro che mi uccidono sono uomini e «tutti gli uomini sono soggetti a fallire e non
hanno perciò diritto di giudicare poiché solo un Ente Superiore può giudicare tutti noi che non
siamo altro che vermi di passaggio su questa terra
». Altri ancora invitano al perdono: «Perdono a
coloro che mi giustiziano perché non sanno quello che fanno e non sanno che l'uccidersi tra fratelli
non produrrà mai la concordia
».

Il disprezzo, se mai, è verso gli inescusabili, coloro che non
prendono posizione, coloro "che non furon ribelli né pur fedeli" (Inferno, III, 38-39), cioè gli ignavi,
gli "attendisti".
Su questo punto dobbiamo constatare una grande distanza tra noi e chi ha lasciato la
vita per una ragione ideale sul fronte antifascista ma, allo stesso modo, anche chi ha combattuto sul
fronte opposto. Si estende ogni giorno di più un giudizio che non solo assolve, ma addirittura
valorizza l'atteggiamento di chi è stato a guardare, per poi eventualmente godere dei frutti di libertà
ottenuti col sacrificio di altri.
Nelle Lettere, leggiamo invece parole come queste: «Quando penso
che siamo vicini molto vicini alla nostra ora, mi raccomando e son più che certo che tutti in
quell'ora scatteranno in piedi, impugneranno qualsiasi arma e colui che non l'adopera sarà un vile e
un codardo
». Non risulta che l'accanimento revisionistico di tutto ciò che ha a che fare con i fatti e
gli atti della Resistenza sia arrivato direttamente ed esplicitamente alle Lettere, per sminuirne,
relativizzarne, se non negarne l'alto valore civile. Può essere che si arrivi anche a questo. Il pericolo
è rappresentato piuttosto da un oblio che si vorrebbe giustificato da un'interpretazione pacificatrice
da stendere su quegli avvenimenti.
Essi sarebbero il frutto di un'esasperazione incompatibile con
l'autentico nostro carattere nazionale, un carattere rappresentato da quella parte maggioritaria del
popolo italiano che ha assistito da estranea o con atteggiamenti di puro soccorso umanitario,
nell'attesa dell'esito degli eventi. Secondo questa visione, i combattenti sui due fronti, fascista e
antifascista, avrebbero rappresentato entrambi una deviazione estranea alla nostra tradizione: una
tradizione moderata, ostile agli eccessi, aperta a ogni aggiustamento e a ogni compromesso,
garantita da una presenza moderatrice e stabilizzatrice come quella della Chiesa cattolica.

Gli uni e gli altri, insieme alla lotta mortale che combatterono e alle ragioni etiche e politiche che li
contrapposero, sarebbero così da condannare alla pubblica dimenticanza, come elementi accidentali
e come fattori di perturbazione della storia che autenticamente appartiene al popolo italiano. In
questo modo, fascismo e antifascismo sono prima accomunati in un medesimo giudizio di
equivalenza, per poter poi essere congiuntamente messi ai margini della pubblica ricordanza.
All'antifascismo, quale fattore costitutivo delle istituzioni repubblicane, verrebbe così a sostituirsi
qualcosa come un "nonfascismo-nonantifascismo", conforme al genio, che si pretende propriamente
italiano, di procedere diritto tra opposti eccessi.
Questa tendenza è pienamente in atto nel senso
comune, alimentata da una storiografia e da una memorialistica sorprendentemente sicura di sé nelle
definizioni del carattere nazionale e nella qualificazione dell'attendismo come virtù di saggezza
pratica, invece che come vizio di apatia: una storiografia che, quando si avventura su simili strade, è
più ideologia che scienza.

Chi ha sacrificato la vita, non importa da che parte, trarrebbe motivo di sconforto e offesa da questo
giudizio liquidatorio
. Sarebbe forse portato a riportarsi a quanto stabilito da Solone, tra le cui leggi
– riferisce Plutarco (Vita di Solone, 20,1) – ve n'era una, del tutto particolare e sorprendente, che
privava dei diritti civili coloro i quali, durante una stasis (un conflitto tra i cittadini), non si fossero
schierati con nessuna delle parti contendenti. Egli voleva, a quanto pare, che nessuno rimanesse
indifferente e insensibile di fronte al bene comune,
ponendo al sicuro i propri averi e facendosi
bello col non partecipare ai dolori e ai mali della patria; ma voleva che ognuno, unendosi a coloro
che agivano per la causa migliore e più giusta, si esponesse ai pericoli e portasse aiuto, piuttosto che
attendere al sicuro di schierarsi dalla parte dei vincitori.

Una simile legge sembra dettata da indignazione morale e non da prudenza politica. L'idea di una
guerra civile obbligatoria certo spaventa. Ma giustificare l'ignavia e l'opportunismo, farne anzi una
virtù pubblica, è cosa diversa e incomprensibile, a meno che si abbia in mente un popolo prono e
incapace perfino di avvertire d'esserlo.
Ma, forse, Solone mirava a qualcosa di più profondo: non
alla guerra civile obbligatoria per legge, ma alla prevenzione della guerra civile. Tutti devono sapere
che, nel momento della crisi che precipita, nessuno sarà giustificato se avrà fatto solo da spettatore
dei drammi e delle tragedie dei suoi concittadini, da estraneo. Tutti allora operino per evitare che
quel momento arrivi; operino dunque preventivamente per la concordia, per la pace, per isolare
fanatici, violenti e demagoghi.

Le Lettere contengono la voce d'un altro popolo, di uomini e donne, d'ogni età e classe sociale,
consapevoli del dovere della libertà e del prezzo ch'essa, in momenti estremi, comporta.
Chi le
legge oggi vi trova un'Italia diversa dalla sua, cioè dalla nostra, dove non si esitava a correre
pericoli estremi per parole che oggi non si pronunciano più o, se le si pronunciano, lo si fa con il
ritegno di chi teme d'appartenere a una generazione di sopravvissuti. Sono quasi una sfida, un invito
a misurarci rispetto a quel tempo, il tempo della libertà e della democrazia riconquistate; un invito a
domandarci quale strada abbiamo percorso da allora.


Gustavo Zagrebelsky     la Repubblica  25 aprile 2010
 


Il testo è parte dell'intervento che sarà letto  all'Auditorium di Roma in occasione del
25 aprile.