Relativismo, una maschera del nulla


In una delle sue ultime interviste, Horkheimer — fondatore, con Adorno, di quella Scuola di
Francoforte che, col suo marxismo critico e autocritico, è tuttora fondamentale per capire la nostra
realtà — dice che il mondo finito e contingente in cui viviamo è l'unico di cui possiamo parlare, ma
non è necessariamente l'unico esistente e comunque non basta. Esso è l'unico oggetto di una onesta
conoscenza razionale, ma la sua finitezza evoca quell'inattingibile altrove, quell'irriducibile Altro
che danno senso al nostro confronto con esso, con le sue mancanze che chiedono di essere colmate,
con le sue ferite che domandano di essere sanate, con le sue esigenze di giustizia e di felicità sempre
deluse eppur mai cancellate. Per la tradizione ebraica, che nutre il pensiero di Horkheimer, il Messia
non è ancora venuto, ma anche chi ritiene che non verrà non può comprendere veramente la realtà
umana senza fare i conti con il senso e con l'esigenza di quell'attesa, di quella promessa di
redenzione.
Ogni filosofia che rinuncia a essere ricerca della verità e del significato si riduce a un
mero protocollo di un bilancio societario; d'altronde un pensiero che pretenda di essersi
impossessato della verità come ci si impossessa di un oggetto o della formula di un esperimento è
una retorica menzognera.

Di Dio, dicono tutti i grandi mistici, non si può dire nulla, perché lo si degraderebbe a misura umana, bestemmiando la sua assolutezza; si può solo sentirsi avvolti dalla sua oscurità, mentre ci si occupa onestamente delle singole cose che si possono vedere.
Quelle parole di Horkheimer, alieno da qualsiasi fede positiva, indicano come la fede,
contrariamente a ciò che spesso si dice, non sia un ombrello che ripara da dubbi e incertezze, bensì
un violento squarcio del consueto sipario quotidiano che ci protegge con tutte le convinzioni e le
convenzioni passivamente acquisite, uno squarcio che ci espone a venti ignoti. Gesù o Buddha non
sono venuti a fondare una religione, perché già allora ce n'erano troppe, bensì a cambiare la vita,
con tutto il rischio e lo smarrimento che ciò comporta e che Gesù ha provato nel Getsemani;
secondo le sue parole, solo chi è disposto a perdere la propria vita la salverà e perdere la vita —
ossia tutto il suo corredo di convinzioni, abitudini, valori, legami, buoni sentimenti e comportamenti
assennati — significa non sapere a cosa si va incontro.

Nel suo dialogo con Giulio Giorello — Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti —
Dario Antiseri ha sottolineato come la fede, proprio perché afferma di credere in una verità e non di
sapere cosa sia la verità, si offre al dialogo senza la pretesa di possedere la chiave dell'assoluto.
Inoltre la fede, a differenza di tante ideologie, impedisce di innalzare falsamente ad assoluto
qualsiasi realtà umana, storica, sociale, politica, morale, religiosa, ecclesiastica; essa è una difesa
contro ogni idolatria e dunque contro ogni totalitarismo, che si presenta sempre come un (falso)
assoluto, un idolo che esige cieca obbedienza e magari sacrifici di sangue. Come Giorello, ammiro
più la preghiera a schiena diritta che quella in ginocchio, ma inginocchiarsi solo dinanzi
all'assolutamente Altro aiuta a non inginocchiarsi davanti a ogni potere che pretende di essere Dio o
il suo unico autorizzato rappresentante e di parlare a suo nome. I fondamentalismi di ogni genere —
anche e soprattutto quelli religiosi, di ogni religione e di ogni Chiesa, nessuna esclusa — sono
spesso i primi a commettere questo peccato di blasfema e violenta idolatria.

Il dialogo fra Giorello e Antiseri è nato anche dalle ripetute condanne del relativismo pronunciate da
Benedetto XVI e dalle polemiche da esse provocate. Un intenso approfondimento di questa
tematica, inteso a sfatare da posizioni laiche la fallace identificazione del relativismo col pluralismo
e con la libertà, è costituito dal volume Verità relativismo relatività (ed. Quodlibet), curato da Tito
Perlini, autore dell'affascinante saggio che lo apre. Interprete e seguace del marxismo critico della
Scuola di Francoforte, sulla quale ha scritto pagine fondamentali, figura intellettuale di rilievo nella
sinistra minoritaria italiana e aperto a quell'«assolutamente Altro» di cui parlava Horkheimer,
Perlini è una delle intelligenze che hanno capito più a fondo le trasformazioni epocali degli ultimi
decenni. Pago di capire, pronto a prendere atto con tranquillo disincanto del fallimento di molte sue
aspettative politiche, riluttante ad apparire (non per sdegnosa o schiva riservatezza, bensì piuttosto
per sana ancorché esagerata pigrizia), Perlini è stato sempre restio a ridurre i suoi acutissimi e
torrenziali saggi, sin dalla sua voluminosa tesi di laurea sul Doktor Faustus, che ben più di mezzo
secolo fa sfondò lo zaino in cui l'aveva messa il suo maestro Guido Devescovi, l'amico e compagno
di classe di Scipio Slataper, per portarsela a leggere in montagna.
Nel suo saggio, Perlini combatte il rifiuto dell'idea di verità e della sua ricerca, che da Nietzsche in
poi domina il pensiero occidentale. Benedetto XVI, condannando il relativismo sul piano etico e
teoretico, ne riconosce la validità sul piano politico quale fondamento della democrazia, basata sul
presupposto che nessuno possa pretendere di conoscere e tanto meno di imporre la strada giusta.
Certamente più democratico di Benedetto XVI, Perlini è tuttavia ben più radicale nella critica non
della democrazia, in cui crede, bensì della sua attuale degenerazione: una politica che ha abdicato a
ogni visione del mondo e si è ridotta a mera gestione — talora a indebita appropriazione —
dell'esistente, declassando la democrazia a «dittatura dell'opinione pubblica manipolata che
legittima ogni forma di demagogia posta al servizio degli interessi dominanti sul piano economico e
finanziario».


È un ritratto perfetto dell'Italia di oggi. Alle classi tradizionali è subentrato un gelatinoso «ceto
medio» che non ha nulla della classica borghesia e che produce e consuma — scrive Perlini
riprendendo un'osservazione di Goffredo Fofi — una colloidale «cultura media» che avviluppa
come un chewing gum i giornali, l'università, la televisione, l'editoria, il dibattito intellettuale,
livellando ed equiparando tutti i valori in una melassa sostanzialmente uniforme e facilmente
digeribile, che smussa ogni reale contraddizione e scarta o disarma ogni elemento capace di mettere
realmente in discussione l'ordine imperante — ogni scandalo e follia della croce, per citare il
Vangelo.
Questa medietà non è la modesta e onesta tappa in cui quasi tutti noi mediocri siamo
ovviamente costretti a fermarci nel cammino verso l'alto, ma è la totalitaria eliminazione di ogni
tensione fra l'alto e il basso, l'ordine e il caos, la vita e la morte, il senso e il nulla.
Il relativismo è il
presupposto di questa (in) cultura dell'optional, che ammannisce un po' di tutto mettendo tutto
insieme sullo stesso piano e sullo stesso piatto, pornografia e prediche sui valori familiari,
fumisterie esoteriche e pacchiane superstizioni, un etto di cristianesimo e un assaggio di buddhismo,
volgarità plebea e volgarità pseudoaristocratica di spregiatori delle masse graditi a quest'ultime,
Madonne di gesso che piangono e veline che discutono con filosofi, abbronzature di famosi su belle
isole e pii cadaveri dissotterrati e messi impudicamente in mostra.
Questo relativismo, in cui tutto è interscambiabile, non ha niente a che vedere col rispetto laico dei
diversi valori altrui accompagnato dal fermo proposito di contestarli rispettosamente ma duramente
in nome dei propri; è il trionfo dell'indifferenza, collante di una solidale e inscalfibile egemonia.

Così il relativista, scrive Perlini, è intollerante verso ogni ricerca di verità, in cui vede un pericolo
per la propria piatta sicurezza, che egli si convince sia l'esercizio della ragione. L'autentico
illuminismo, fondamento della nostra civiltà inviso ai fondamentalisti clericali e anticlericali, è
quello espresso da Lessing nella sua famosa parabola dei tre anelli: nessuno sa quale sia quello
vero, perché l'occhio umano non può distinguerlo, ma si sa che uno è vero, che c'è la verità e che
vivere significa cercarla pur sapendo di non poter mai esser certi di averla raggiunta. Il relativismo
— scrive Perlini — è uno stimolo salutare all'interno della ricerca della verità, per impedire che essa
si snaturi, come è avvenuto e avviene spesso, nell'intollerante dogmatismo. Altrimenti il relativismo
è l'altra faccia del fondamentalismo sicuro di sé, poca importa se trionfalmente ateistico o
trionfalmente bigotto, muro di supponenza che un io debole e timoroso della vita si costruisce per
tenerla lontana. Finché c'è il muro, il timore dei fantasmi è forte. Ma come dice la vecchia storia?
«La paura bussa alla porta. La fede va ad aprire. Fuori non c'è nessuno».

Claudio Magris        Corriere della Sera 12 dicembre 2008