Referendum sul diritto di morire


Se uno di noi volesse negare a un altro il diritto di vivere (a una donna di partorire, per esempio, o a
chiunque di esistere), tutti insorgeremmo, si spera, e cercheremmo, potendo, di impedirglielo. Tant'è
vero che in Italia e in Europa non ammettiamo la pena di morte. Ma se qualcuno rivendica il diritto
di morire, glielo si nega, anzi si va a qualunque estremo per rifiutarglielo. Il caso di Eluana Englaro
ci getta in faccia con evidenza macroscopica, anzi spaventosa, questo dato di fatto. Perché una
persona non dovrebbe avere il diritto di morire?
Che la persona sia vecchia e malata, tormentata da sofferenze insopportabili, o che sia giovane e
sana, nel pieno delle sue forze: anche se avesse ogni ragione di vivere la vita, ma decidesse invece
di togliersela, e qualunque fosse il motivo del suo gesto, che diritto avremmo di negarglielo?

Privare se stessi della vita è una follia, d'accordissimo. Ci ripugnerà, non c'è dubbio. Sarà come
minimo doveroso fare tutto il possibile per evitare che una persona commetta questa pazzia, darle
un supporto che la possa aiutare a scoprire un senso nella vita. Ma se ha deciso di farla finita, con
quale autorità glielo si può impedire?
In Italia, ci informa l'ISTAT, 2867 persone si sono uccise nel 2007: quasi 5 persone per ogni
centomila abitanti. La vita è l'unico bene che abbiamo, la fonte di ogni altro bene: chi se la toglie lo
fa di solito per disperazione o dolore o infelicità intollerabili, perché non sopporta più di vivere. Che
sia la rovina economica a portare al suicidio, o il peso delle proprie azioni sbagliate, o un ricatto
esterno, o la vergogna, o la semplice alienazione, perché con nulla e nessuno nella vita riusciamo a
interagire, o qualunque altro sia il motivo, chi si suicida ha le sue ragioni per farlo, e ciascuna di
queste è una sconfitta.
In passato però, e per secoli, ci si è suicidati anche solo per onore (una
tradizione che in Giappone è ancora viva). I suicidi imposti da tiranni, come quello di Seneca, non
sono stati visti come sconfitte, ma come affermazioni di libertà interiore anche davanti alla morte.
Libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta, dice Virgilio presentando Dante.
Che il suicidio sia una cosa terribile è un'affermazione che ci trova tutti d'accordo: siano più o meno
felici o infelici, circa 99.995 italiani su 100.000 non si privano del proprio bene fondamentale. Ma
cosa ci dà il diritto di vietare ad un altro di togliersi la vita, al punto di considerare il suicidio un
reato?
Se la persona in piena lucidità è determinata a porre termine ai suoi giorni, chi siamo noi per
negarle la possibilità di farlo?
Cosa sappiamo della vita e della morte? Cosa ci autorizza a rifiutare il diritto di disporre della
propria morte, mentre riconosciamo il diritto di indirizzare la propria vita? Chi è religioso invocherà
la volontà di Dio, che avrebbe creato l'individuo, ma perché mai questa convinzione dovrebbe
valere per chi non vede da nessuna parte la presenza di un Dio?

Che ogni individuo sia libero e responsabile delle proprie azioni: così vogliamo le nostre società. Se
lo Stato o la Chiesa o la famiglia o chicchessia pensa di avere qualcosa da dare o da rivendicare, che
lo faccia: parli con la persona, dia una mano se può. Ma se non può, o non ne è capace, o quanto fa
non serve, che rispetti la scelta dell'aspirante suicida.
Negare la libertà di morire è ridicolo per due
ragioni: intanto perché chi vuole suicidarsi prima o poi ci riuscirà, se non è stretto in una camicia di
forza o reso incosciente dai farmaci (e, beninteso, ci sono situazioni che lo esigono). Ma nessuno in
definitiva può impedirgli di uccidersi, una volta tornato a casa. Seconda ragione: la nostra morte è
certa, già che siamo vivi, anzi è forse l'unica certezza universalmente riconosciuta. Perché mai una
persona nel pieno delle proprie facoltà mentali non dovrebbe essere libera di decidere il tempo e il
modo della propria morte, anziché affidarli alla natura e al caso? Chi nasce è comunque destinato a
morire.
 

Una società che voglia dirsi civile non può negare ai suoi membri il diritto di decidere della propria
morte. Il testamento biologico, norma di elementare rispetto della libera volontà dell'individuo, è
tabù da noi in sede legislativa.
I tentativi di portarlo all'attenzione sono ricacciati come polvere sotto
il tappeto. L'idea che una persona possa disporre le condizioni della propria morte, in determinate
circostanze - per esempio, se si ritroverà in coma vegetativo permanente - è così controversa da
terrorizzare i politici. Eppure, né i politici, né gli ecclesiastici, né i medici, né nessuno
probabilmente, sa che cosa accade o non accade in quello spazio intermedio fra la vita e la morte
che è il coma. Nessuno sa se rimanga qualcosa di ciò che consideriamo il nostro io o che chiamiamo
"coscienza". Già che nessuno lo sa, perché la scelta non dovrebbe spettare al diretto interessato?
Nella vicenda di Eluana Englaro, in coma da quasi diciassette anni dopo averne vissuti ventidue, si
è giunti allo scontro istituzionale, un po' come se la magistratura ordinasse la scarcerazione di un
detenuto ma il potere esecutivo lo ricacciasse in cella. Eppure la ragazza, sconvolta dall'analoga
sorte di un amico, aveva espresso con forza e con chiarezza ai genitori la sua volontà di non essere
intubata, se qualcosa del genere fosse accaduto a lei. In un Paese dove ogni giorno muoiono in
media quattro lavoratori per incidenti sul lavoro, per lo più dovuti al mancato rispetto di norme di
sicurezza che i governi non si preoccupano di fare osservare, quale sadismo senza nome può
spingere il ministro a tenere in vita chi è prigioniero del proprio corpo e ha espresso, quando poteva,
il desiderio di liberarsene? in nome di quale vita? certo non di quelle che si perdono ogni giorno
nelle fabbriche e nei cantieri. Perché il ministro del Lavoro e della Salute non esercita là la sua
solerzia?

Bisognerebbe chiedere ai cittadini se il testamento biologico è ammissibile. Può l'individuo
decidere, in piena consapevolezza, quale deve essere la sua sorte se dovesse perdere coscienza per
un tempo illimitato, o se non fosse più in grado di esprimere la propria volontà? Può lasciare scritto:
«Staccate i tubi»; oppure: «Tenetemi in vita comunque, finché possibile»; o ancora, poniamo:
«Tenetemi in vita per sei mesi, poi lasciatemi morire»? Non si può pretendere che i cittadini si
esprimano per referendum su temi che richiedono competenze speciali, come l'ingegneria genetica o
le strategie energetiche, ma a chi spetta, se non a loro, decidere se chi è nato è libero di scegliere la
propria morte? E sperabile credere che vincerebbe il parere: «Io sono padrone della mia vita». Se la
Chiesa davvero crede nella libertà dell'uomo, perché non lascia le persone libere di morire?
Nessuno ha chiesto la nostra opinione, prima di metterci al mondo: perché non dovremmo essere
liberi di andarcene? Cercare la morte non è nella natura dell'uomo, né di alcun essere vivente: ma
quanti hanno cercato la morte nelle guerre, e peggio ancora l'hanno data, magari con la benedizione
della stessa Chiesa? Se lo Stato invece ritiene che chi si uccide leda un diritto fondamentale e
danneggi la comunità, privandola di se stesso, che si adoperi per creare le condizioni perché le
persone non si gettino nella morte.

Nessuno può credere che chi si suicida lo faccia volentieri.
Il discorso è lo stesso per un altro punto fermo della Chiesa Cattolica, il divieto di aborto
profilattico. E questa una situazione molto più frequente dei coma e assai dolorosa per il malato che
è costretto a nascere e per la sua famiglia. Qui non sappiamo certo che cosa pensi il soggetto in
gestazione, al terzo mese di gravidanza. La Chiesa, comunque, estende il diritto alla vita alla
cellula-ovo appena fecondata dallo spermatozoo, in cui subito verrebbe ad abitare un'anima. Il
grande teologo San Tommaso d'Aquino non avrebbe avuto problemi con l'aborto profilattico, perché
diceva che l'anima entra nel corpo solo quando il feto ha assunto forma pienamente umana. Nel
caso di Eluana, come in quello di tutti i futuri malati di gravi malattie genetiche la cui nascita può
venire oggi evitata, la sofferenza dei parenti e i costi alla società sono molto gravi, ma vengono
ignorati. I genitori che fanno nascere coscientemente un bimbo gravemente e irrimediabilmente
danneggiato si assumono doveri e pene tremende, e lo stesso ci sembra valere per i parenti di una
persona in coma profondo, se, avendo tentato con ogni mezzo di riportarla in vita ed essendovi in
qualche modo riusciti, se la ritrovassero con danni gravi e permanenti.
In un certo senso sorprende, questo attaccamento della Chiesa alla vita, anche quando non sia che
un barlume cui solo le macchine impediscono di spegnersi, perché in fondo la Chiesa promette al
fedele un futuro ben più luminoso di questa vita. Ma Chiesa o Stato che sia, chi può pronunciarsi o
legiferare su ciò che non conosce? E chi fra i vivi può sindacare sulla morte?

Luca e Francesco Cavalli-Sforza      la Repubblica  2 gennaio 2009