Ratzinger e il Papa inquisitore

I primi anni del pontificato di Joseph Ratzinger costituiscono una perfetta rivisitazione della tela di
Penelope. Nel periodo che va dall’ottobre 1962 al dicembre 1965 il Concilio Vaticano II intese
porre fine all’epoca costantiniana della Chiesa (oltre un millennio e mezzo della propria storia!),
sciogliere l’abbraccio tra il trono e l’altare, aprirsi al dialogo col mondo moderno, sostituire
l’anatema verso l’errore con la carità verso l’errante.
Riconciliarsi, insomma, con tutto ciò che il
“Sillabo” aveva definitivamente condannato: democrazia e scienza in primo luogo, fino al primato
della coscienza per ogni fedele, e addirittura alla libera ricerca della verità storica su Gesù.
Un analogo lasso di tempo è bastato al “Papa inquisitore” per disfare accuratamente quanto
intrapreso dal “Papa buono”. La volontà di amicizia col mondo del pluralismo liberale e della
ricerca empirica, ha lasciato il posto alla volontà di anatema e a un programmato “scontro di
civiltà”.

(…)

una serie di fallimenti e autogol

Impresa anacronistica e dissennata, a prima vista. Autolesionista per la Chiesa, addirittura. In
termini mondani, la cui misura è il successo, i primi anni di papato costituiscono infatti per l’ex
cardinale dell’ex Sant’Uffizio uno sconcertante inanellarsi di fallimenti e autogol. Se non fosse per
la deferenza al Romano Pontefice, cui anche i non credenti si sentono vincolati – fin troppo e troppo
spesso – la sagoma di Don Chisciotte e del suo agitarsi contro i mulini a vento sarebbe stata
rispolverata a go go, per definire l’overdose di filippiche rovesciata quotidianamente dal soglio di
Pietro contro una società secolare in preda “allo smarrimento e alla confusione” (a un
“‘deragliamento’ laicizzante della società nel suo complesso”, converrebbe a modo suo Habermas).

Inarrestabile sembra infatti almeno la manifestazione più luccicante della secolarizzazione, la
trionfante slavina dell’edonismo consumistico e sessuale, se sulla spianata di Tor Vergata, alla
periferia di Roma, Anno (sancto) domini 2000, dopo aver entusiasticamente osannato la severa
paternale del loro Wojtyla contro il sesso fuori del matrimonio, un milione di Papa-boys (and girls,
evidentemente) lasciava alle pale degli operatori ecologici (vulgo netturbini) del mattino seguente
un allegro mare di caucciù, in decine di migliaia di pezzi dalla inequivocabile conformazione
cilindrica.

Torniamo al punto. In questo mondo globalizzato di mercificazione, compreso il prospero
proliferare del bazaar del sacro, l’ex prefetto dell’ex Sant’Uffizio è riuscito nell’impresa cattolica
(alla lettera: universale) di scontentare tutto lo scontentabile, di deludere tutti i possibili
interlocutori, di frustrare i potenziali alleati, moltiplicando e coltivando le occasioni di isolamento,
dissipando prestigio e credibilità internazionale.

Solo alcuni accenni.

(…)

Il 2 febbraio 2009 Angela Merkel – il capo del partito confessionale al governo, non un’atea
militante in preda a foia iconoclasta – è costretta a criticare il Papa tedesco con una durezza
assolutamente irrituale: “Io auspico una chiarificazione piena della questione da parte del Papa e del
Vaticano … non sono solita prendere posizione su questioni interne della Chiesa, ma questa è
un’eccezione, perché siamo davanti a una questione fondamentale”. Il Papa ha infatti appena
riabbracciato come fratelli nella fede gli adepti della Fraternità Sacerdotale San Pio X, fondata dal
fu monsignor Lefebvre, tra i quali Richard Nelson Williamson, ordinato vescovo dallo stesso
Lefebvre il 30 giugno 1988 e segnalatosi per le farneticanti dichiarazioni con cui negava lo
sterminio degli ebrei nelle camere a gas e sosteneva l’autenticità dei “Protocolli dei Savi di Sion”.

Il cancelliere ha bacchettato esplicitamente il Vicario di Cristo perché “i tentativi di chiarimento
venuti finora dal Vaticano non sono sufficienti… a questo punto dipende dal Papa chiarire che non
ci può essere una negazione dell’Olocausto”. E ha concluso elogiando con un perentorio “me ne
rallegro” le proteste di fedeli e vescovi tedeschi contro la decisione del Vaticano. In un’intervista
alla radio pubblica Südwestrundfunk il cardinale Karl Lehmann, ex presidente della Conferenza
episcopale tedesca, aveva affermato che solo scuse “ad alto livello”, avrebbero potuto chiudere
l’incidente, dopo aver definito “una catastrofe per i sopravvissuti dell’Olocausto” la decisione di
Benedetto XVI di riammettere Williamson nel seno della Chiesa.

(…)

Le agenzie riferiscono, inorridite, la vicenda di una bambina brasiliana di 9 anni incinta di due
gemelli a seguito dello stupro perpetrato dal patrigno, che peraltro ne abusava da tre anni (come
della sorella disabile). La bambina (altezza un metro e 33, peso 36 kg, denutrita) viene sottoposta ad
aborto terapeutico (l’unico ammesso in Brasile), in quanto non avrebbe potuto sopportare la
gravidanza gemellare: altissimo il rischio di morte per lei e per i due figli. Il vescovo di Olinda e
Recife, mons. José Cardoso Sobrinho, a tambur battente scomunica con cattolica sollecitudine la
bambina e l’intera équipe medica che ne ha evitata la morte. Nessuna scomunica per il patrigno
stupratore, invece.

Il vescovo Sobrinho spiega al El País che lo stupratore ha bensì “commesso un peccato
gravissimo… ma più grave di questo sapete qual è? l’aborto” e dunque gli anni di stupro/incesto del
patrigno e il crimine di bambina e medici non sono paragonabili, il secondo costituisce “un
omicidio contro due vite innocenti” (il primo è solo un “peccato gravissimo”), tanto più
imperdonabile e meritevole di scomunica in quanto l’aborto rappresenta “un olocausto silenzioso,
che uccide ogni anno un milione di innocenti in Brasile e 50 milioni nel mondo. Un olocausto
maggiore di quello dei sei milioni di ebrei”. “La scomunica è automatica”, aggiunge, “io non ho
fatto che dichiararla”. E se la bambina fosse morta nel dare alla luce i gemelli?, chiede il giornalista.
E José Cardoso Sobrinho, serafico: “Una donna medico italiana ha portato avanti la sua gravidanza pur sapendo i rischi che correva. È morta, ma si è fatta santa!”.

Conferma e applaude uno dei “ministri” più vicini a Ratzinger, il cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione per
i vescovi, ricordando come, “per il codice di Diritto canonico chi pratica o collabora direttamente
all’aborto cade ipso facto nella scomunica”. Carità cristiana, insomma.

Mons. Fisichella, sull’Osservatore Romano, cerca di correre ai ripari. Riconosce che la bambina
“doveva essere in primo luogo difesa, abbracciata, accarezzata con dolcezza per farle sentire che
eravamo tutti con lei”, “prima di pensare alla scomunica era necessario e urgente salvaguardare la
sua vita innocente e riportarla a un livello di umanità di cui noi uomini di Chiesa dovremmo essere
esperti annunciatori e maestri. Così non è stato e, purtroppo, ne risente la credibilità del nostro
insegnamento che appare agli occhi di tanti come insensibile, incomprensibile e privo di
misericordia”. Aggiunge, anzi, che “a causa della giovanissima età e delle condizioni di salute
precarie la sua vita era in serio pericolo per la gravidanza in atto. Come agire in questi casi?
Decisione ardua per il medico e per la stessa legge morale”. Ci si aspetterebbe, a rigor di logica, la
condanna per l’avventata scomunica. E invece, “il Codice di diritto canonico usa l’espressione latae
sententiae
per indicare che la scomunica si attua appunto nel momento stesso in cui il fatto avviene”
perché “la stessa collaborazione formale (ad un aborto) costituisce una colpa grave che, quando è
realizzata, porta automaticamente al di fuori della comunità cristiana”. Ma allora aveva ragione
l’ottimo vescovo Sobrinho, e il “ministro” di Ratzinger, cardinal Re, che lo ha prontamente difeso!
La loro unica colpa è di aver proclamato alta e chiara, senza ipocrisie e infingimenti, quella che
resta la Verità cattolica sull’argomento. E che monsignor Fisichella sta solo inzuccherando, di fronte
all’ovvio orrore del mondo. Compresi non pochi cattolici.

(…)


la restaurazione costantiniana

Un filo rosso evidente lega questi episodi: l’ex cardinale dell’ex Sant’Uffizio vuole imporre al
mondo la Verità della sua Chiesa, Cattolica Apostolica Romana, nell’intero orizzonte etico-politico.

I suoi primi quattro anni di pontificato possono perciò riassumersi sotto le insegne di una
Restaurazione costantiniana, che rovescia nell’espressione e nei fatti la stagione e la vocazione del
Concilio Vaticano II. (…)

Ratzinger ha scommesso sul fallimento del post illuminismo (liberale, socialista, democratico) che
garantiva in nome della scienza e di una umanità libera l’appagamento nell’aldiqua, la sicurezza e lo
sviluppo per tutti e per ciascuno.
Il Papa della Reconquista vede la grande chance per la Verità cattolica nell’impasse di una finitezza
senza futuro, che concede a ogni “sapiens sapiens” solo l’hic et nunc del consumo immediato ed
effimero, ma sottrae qualsiasi spessore di senso, qualsiasi radicamento di storia, qualsiasi identità
collettiva di solidarietà.
Si allungano le aspettative di vita, la medicina consente di prolungare il
bios dei corpi organo per organo, ma si dilatano, anziché contrarsi, le paure legate alla nostra
materialità: non solo la malattia, la sofferenza, e una morte che anche procrastinata sembrerà
prematura, ma l’incubo dell’inadeguatezza, in una hybris asintotica di chirurgia estetica che non
darà mai appagamento.

(…)

Nell’orizzonte niente affatto peregrino di quest’analisi può così diventare perfino seducente la
formula a prima vista irricevibile che chiede ai non credenti di comportarsi, soprattutto nella vita
pubblica, “veluti si Deus daretur”. Ratzinger ha capito tutte le debolezze del suo nemico. In
apparenza la secolarizzazione ha trionfato. In realtà, se tracolla la speranza della giustizia
nell’aldiqua viene meno il futuro stesso, e ritorna ovvio e prepotente il primato della Salvezza
(quale che sia). Finché c’è lotta c’è speranza, infatti, ma è vero anche il contrario, e poiché solo la
lotta/speranza fornisce identità e senso, con l’estinguersi di ogni speranza/lotta si apre il vaso di
Pandora delle identità surrogatorie alla speranza perduta.
Sacre o profane che siano, ma quelle sacre
possiedono il non trascurabile valore aggiunto dell’eternità.

(…)

Il progetto lucido e a suo modo realistico del Papa ha trovato fin dall’inizio la sua formula: porre
fine alla dittatura del relativismo. Una crociata che deve perciò liberare il Santo sepolcro della
scienza e democrazia, riportandole dentro l’orizzonte del progetto di Dio.
Cioè del suo Vicario
nell’aldiqua.

(…)

Il Papa teologo ha imparato la lezione dei filosofi post-heideggeriani: nessuna negazione dei valori
della modernità, ma la loro decostruzione fino a far dire l’opposto di quanto hanno sempre
significato. Una logica degna della neo-lingua di Orwell e già prefigurata da Lewis Carrol in
Attraverso lo specchio, capitolo sesto: “‘Quando io mi servo di una parola’ rispose con tono
sprezzante Humpty Dumpty, ‘quella parola significa quello che piace a me, né più, né meno’. ‘Il
problema è’ insisté Alice, ‘se lei può dare alle parole significati così differenti’. ‘Il problema è’
tagliò corto Humpty Dumpty: ‘Chi è il padrone?’”.

Alice non disse nulla. E io non istituirò un parallelo tra la disinvoltura semantica di Ratzinger e
quella di Berlusconi, perché sarebbe fin troppo facile addebitarlo a una ossessione tutta italiana. E’
però incontrovertibile che in entrambi i casi venerati vocaboli carichi di valore positivo (e di
sacrifici e lotte per approssimarli), si pensi a “libertà”, vengono piegati a santificare una realtà
opposta, di servitù, esclusivamente in grazia di un monopolio di potere. Il potere – catodico o
dogmatico – è il messaggio.

(…)

Strumento principe di questa crociata contro il relativismo, una inedita santa alleanza tra le
religioni, accompagnata dall’entente cordiale con gli Stati disposti a praticare una “laicità positiva”,
o peggio. Chiave di volta di questo duplice schieramento, l’assunzione comune della legge naturale,
in quanto razionale e iscritta ab ovo nel cuore degli uomini, dunque eterna, eguale e vera per tutti, di
cui i diritti dell’uomo promulgati dall’Onu costituirebbero solo la trascrizione nel diritto positivo
internazionale (e alla cui luce, dunque, andrebbero interpretati). In questo modo Ratzinger pretende
di battere in breccia qualsiasi accusa di ipoteca confessionale o clericale. Non si tratterebbe infatti di
valori particolari della morale cattolica ma caratteristici di ogni autentica morale umana.
Sembra la riuscita quadratura del cerchio. Danno invece luogo ad antinomie, per fortuna.

(…)

la ragione sotto il giogo della rivelazione

Perché, “legge naturale”, d’accordo, ma poi ciascuno la decifra a suo modo. Neppure un secolo di
guerre di religione aveva compromesso la comune morale sessuale, ad esempio. Più o meno rigorosi
o lassisti, ma l’adulterio restava peccato mortale, per tutti. Oggi che il progresso della medicina ha
dilatato a dismisura l’etica legata alle stagioni del corpo – nascita, sesso, morte – cosa sia morale è
divenuto altamente problematico, e anzi indecidibile in termini di sentire comune. La “legge
naturale” sarà anche iscritta nel cuore di tutti i “sapiens sapiens”, ma ciascuno ne ascolta i battiti a
modo proprio, incompatibile con quello altrui, si tratti di ricerca sulle staminali, aborto,
contraccezione, eutanasia.
Insomma, le due ali della strategia di Ratzinger hanno il piombo, proprio perché dietro
l’accattivante ecumenismo umanistico ripropongono il vecchio soggiogamento della ragione sotto la
giurisdizione della rivelazione, e del Papa di Roma che ne custodisce le chiavi ermeneutiche
autorizzate.
Il dovere di ottemperare ai “diritti dell’uomo” è solo l’ultimo travestimento del Sillabo,
l’obbedienza della legge civile alla legge di Dio. Ad essere rigorosi, si chiama teocrazia. De Maistre
in versione software, senza l’hardware dello Stato pontificio.

(…)

Sia chiaro, la volontà di una restaurazione teocratica, attraverso l’escamotage della “legge morale
naturale”, era già missione evangelica per Wojtyla, di cui del resto Ratzinger è stato l’ideologo e il
più stretto compagno d’arme. Con una differenza: che nell’immaginario collettivo, il reazionario
Defensor fidei (nel senso della più occhiuta ortodossia) che pure Giovanni Paolo II era, scoloriva
rispetto al peregrinante pastore che attraversa i continenti per annunciare la buona novella (e che
contribuisce con forza epocale al crollo dei comunismi). E l’immagine conta: con Karol Wojtyla,
primo autentico Papa catodico, l’immagine mediatica è divenuta sostanza del carisma pontificio,
simbolo, nel più forte senso teologico.


Si può perciò dire che Ratzinger è la verità di Wojtyla, l’essere senza l’apparire, il compimento e la
radicalizzazione della volontà di revanche contro il grande Satana (per usare l’espressione di un
anatema concorrente) della modernità illuminista, strategia che con il Papa polacco era già diventata
stella polare di evangelizzazione. L’apparire però conta, abbiamo visto. Wojtyla viene sentito e
vissuto come un atleta di Cristo, un combattente, un padre severo nel dogma ma più ancora un
Ercole di “iustitia et pax”, che si prodiga senza risparmio da un capo all’altro del mondo. Contro
questo sfondo di virile austerità assumono pesantissimo, ancorché morbido, rilievo le svenevoli
attenzioni dell’arcigno teologo tedesco per estenuanti frivolezze estetiche, dagli elaborati e sontuosi
berretti alle babbucce rosse a un segretario che sembra uscito da Beverly Hills, predilezioni poco
adatte a suscitare entusiasmi di popolarità evangelica.

Karl Rahner, un teologo che Ratzinger conosce benissimo e che fu tra i massimi protagonisti del
Concilio Vaticano II, tentando una “interpretazione teologica fondamentale” di quell’evento definì il
Concilio l’inizio di una terza epoca nella storia della cristianità, dopo quella ebraica delle origini, e
dopo la seconda, “ellenizzante” e infine eurocentrica, che da Paolo (e comunque da Nicea) si era
prolungata fino a Pacelli. Col Concilio doveva iniziare invece l’epoca della Chiesa mondiale, nel
duplice senso di non più eurocentrica, ma anche di aperta al mondo, in ascolto amichevole della
modernità.
Così sembrò a una intera generazione di credenti, e qualcuno vide retrospettivamente,
nell’esplodere di spiritualità rinnovata e di “comunità di base” che percorse il “popolo di Dio” alla
chiusura del Concilio, una sorta di anticipazione cattolica del sessantotto.

L’anti-illuminismo è invece rimasto il solo ecumenismo di cui sia capace il Papa che viene dal
San’Uffizio.
Un “ecumenismo” dell’odio per l’autos-nomos dell’uomo, che sostituisce e rovescia
quello del Concilio Vaticano II, ma sotto pretesa di inverarlo, secondo la più classica prassi
canonica o, se si preferisce, la più trita furbizia hegeliana.

Riuscirà questo disegno? Fino a che punto e con quali costi per l’unità della Chiesa di Roma?
Abbiamo visto punti di forza e di debolezza della strategia ratzingeriana della Reconquista. La sua
forza principale risiede nella debolezza delle democrazie, nel tradimento che esse quotidianamente
compiono rispetto alle promesse di “libertà, eguaglianza, fratellanza”, e di “diritto al perseguimento
della felicità” con cui si sono presentate agli uomini del disincanto.
Fino a che questo tradimento
continuerà, fino a che non vinceranno partiti di democrazia conseguente, capaci di approssimare
instancabilmente e asintoticamente quelle promesse, il Papa avrà dalla sua il monopolio della
speranza incielata in Salvezza.

Al tempo stesso, comunque, questa Salvezza declinata nei termini di una nuova eufonia di trono e
altare, sullo spartito di una bioetica offensiva per le libertà individuali e umiliante per la laicità
pubblica, se ancora non ha prodotto tra i non credenti il rigetto radicale che sarebbe necessario, sta
trasformando in voragine, dentro la Chiesa, lo scollamento tra gerarchie e fedeli. Voragine per ora
silenziosa, perché alle voci di dissenso è stata messa la mordacchia
, ma voragine percepibile, che
prende anche le vie dell’esodo verso altre religioni o altre religiosità, o quelle di un esilio interno,
che evita lo scontro teologico e si rifugia nella pratica di un cristianesimo autentico, rispettoso del
Vangelo e degli “ultimi”. Tutto questo è la “Chiesa del silenzio” del Terzo millennio. Il giorno che
prenderà la parola, se mai la prenderà, e/o che l’irrinunciabile utopia democratica riprenderà la sua
lotta, la Reconquista di Ratzinger si dissolverà, come all’alba i sogni e i vampiri.

 

Palo Flores d'Arcais     il Fatto Quotidiano  26 novembre 2009