Ragion di Stato
Silenzio romano alle urla dal deserto
Gli sos via sms dal deserto di Libia non fanno suonare le sirene d’allarme né a
Palazzo Chigi né alla Farnesina. L’Italia della gente di buona volontà, l’Italia
delle organizzazioni non governative rilancia le richieste d’aiuto disperate che
arrivano dal centro di detenzione di Braq, vicino a Sebah, nel mezzo del Sahara,
dove attualmente la temperature raggiungono i 50 gradi: lì, nudi da giorni,
molti coperti del proprio sangue, pestati, feriti, 245 rifugiati eritrei, fra
cui 18 donne e bambini, rischiano la vita, in condizioni di detenzione
durissime, dopo essere stati trasferiti per punizione dal campo di Misurata. La
vicenda è stata segnalata e seguita, in questi giorni, con particolare
attenzione dell’Unità. Le voci da Braq sono frammentarie, ma tutte danno un
quadro allucinante di maltrattamenti e precarietà: alcuni detenuti per la
disperazione avrebbero tentato il suicidio bevendo acido.
Il Cir, il Consiglio italiano dei rifugiati, e altre sigle si
fanno megafono dei disperati appelli all’intervento internazionale dei rifugiati
eritrei, in particolare “dopo i maltrattamenti subiti negli ultimi giorni”.
Ma dai palazzi del Potere, fedeli alla consegna dell’amicizia con il regime del
dittatore libico Muhammar Gheddafi e rispettosi del principio di non ingerenza,
non vengono echi. Intendiamoci, in casi come questi la discrezione può
essere la scelta giusta: proprio il Cir dichiara di “avere motivo di pensare che
il governo italiano si stia muovendo”, dopo una telefonata del ministro degli
Esteri Franco Frattini al presidente del Cir Savino Pezzotta. E alla Farnesina
non si esclude una presa di posizione europea.
Ma non c’è tempo da perdere. Amnesty International denuncia i pericoli
cui i rifugiati eritrei andrebbero incontro se fossero ‘deportati’ in patria:
“la tortura, la punizione riservata ai colpevoli di ‘tradimento’ e ‘diserzione’”
e la vita. Per loro, la cosa più sicura sarebbe il trasferimento in Italia e
un’accoglienza nel nostro Paese.
Ma siamo ben lontani da una prospettiva del genere: da quando la
Libia ha chiuso l’ufficio dell’Onu per i rifugiati a Tripoli, le prospettive di
quanti vogliono fuggire a regimi repressivi o semplicemente alla povertà sono
peggiorate.
Nell’immediato, le organizzazioni umanitarie chiedono di potere rendere visita
al centro di Braq e di potere prestare cure di emergenza agli eritrei feriti e a
quanti hanno contratto malattie infettive. Poi c’è la preoccupazione di evitare
che siano rimpatriati, nel rispetto del principio internazionale del ‘non
respingimento’ verso Paesi a rischio tortura e di maltrattamenti. Un’annunciata
visita dell’ambasciata di Eritrea a Tripoli nel centro di Braq è considerata una
minaccia di deportazione, o di rappresaglia contro le famiglie dei rifugiati
rimaste in Eritrea: dei contatti diplomatici in corso danno notizia fonti
dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni a Tripoli. Dal Parlamento,
vengono richieste di spiegazioni al ministro Frattini e al ministro dell’interno
Alberto Maroni, che, più della situazione in Libia, s’interessa del rischio
d’immigrazione via Malpensa: “È la nuova Lampedusa”, dice, in base a uno studio
secondo cui con 15mila euro si compra un passaggio aereo da un Paese
extracomunitario a un grande scalo Ue – una cifra da capogiro, per i disperati
delle carrette del mare’.
“Dobbiamo risolvere il dramma degli eritrei in Libia e dobbiamo anche evitare
che casi del genere si ripetano”, afferma il senatore Pd Roberto Di GiovanPaolo.
Sotto accusa è l’accordo con la libia, fiore all’occhiello del Governo
Berlusconi, perché riduce il flusso dei clandestini, a detrimento, però, dei
principi umanitari. “L’intesa con Tripoli non funziona –denuncia Di
Giovan-Paolo-: quando venne firmata, perché non si parlò anche di diritti
umani?”.
La fase più tragica dell’odissea dei 245 rifugiati eritrei cominciò il 30 giugno: dopo un tentativo di fuga la sera prima, un centinaio di soldati e poliziotti libici, pesantemente armati, fecero irruzione nel centro di detenzione di Misurata. Dopo un pestaggio seguito dal ricovero di 14 detenuti, tutti i malcapitati furono caricati su due container e trasferiti con un viaggio blindato di 12 ore a Sabha. Lì, le condizioni di detenzione sono drammatiche: sovraffollamento, acqua e cibo insufficienti, servizi igienici inadeguati.
Giampiero Gramaglia il Fatto 6.7.10
«Italiani, ribellatevi. O sarete responsabili come nelle colonie»
Dagmawi, protagonista del film di Segre «Come un uomo sulla
terra», racconta in prima persona l’inferno della Libia
Mi appello al governo italiano e a quello libico, in nome di tutti gli eritrei,
i somali e gli etiopi che in questo momento stanno soffrendo in Libia. So
benissimo cosa vuol dire essere nelle mani della polizia libica. Uso le ultime
parole che mi rimangono, perché anche le parole finiscono quando non avviene
nessun cambiamento. Io l'ho vissuto sulla mia pelle: i maltrattamenti
nelle carceri libiche, gli schiaffi, le bastonate, gli insulti dei poliziotti
libici. Anche io sono stato deportato dentro un container, durante un giorno e
mezzo di viaggio, verso il carcere di Kufrah, con altre 110 persone, ammucchiate
come sardine. Con noi c'erano anche otto donne e un bambino eritreo di quattro
anni. Si chiamava Adam. Chissà che fine ha fatto quel bambino, chissà se è
riuscito a salvarsi dalla trappola italo libica, chissà se sua mamma non è
stata violentata dai poliziotti libici davanti a lui... Se è sopravvissuto,
ormai avrà otto anni, e comincerà a capire piano piano che razza di mondo è
riservato a lui e a tanti altri come lui.
Veniamo da paesi dove l'Italia non ha ancora fatto i conti con i suoi massacri durante il periodo coloniale e dove ancora oggi, dopo mezzo secolo, usa i libici per combattere gli eritrei, come all'epoca delle colonie usava gli eritrei per combattere i libici. È vero che la libertà di questi miei fratelli minaccia il benessere dei cittadini europei? È vero quindi che un accordo per il gas e il petrolio vale di più delle vite umane e della loro libertà naturale? Perché l'Italia, da paese civile, non ha previsto nell'accordo con la Libia il minimo rispetto dei diritti "inviolabili" degli esseri umani invece di chiudere un occhio e vantarsi di aver bloccato l'emigrazione via mare? Mi ricorda la stessa ipocrisia con cui Mussolini fece credere al suo popolo che l'Italia avesse stravinto sugli abissini senza dire nulla sui mezzi che avevano portato a quelle vittorie, ovvero tonnellate e tonnellate di gas utilizzate senza pietà per sterminare i civili. Il tono del governo è lo stesso, oggi come allora, ed è la stessa la reazione della gente.
Se ripenso a Adam il bambino di quattro anni che era con noi sul
container, mi chiedo: quale era la sua colpa? Mi ricordo che ogni tanto
l'autista del container (Iveco) si fermava per mangiare o per i suoi bisogni,
mentre 110 persone urlavano per il caldo infernale del Sahara, per la mancanza
d'aria, che a malapena entrava mentre il camion era in movimento. Il piccolo
Adam lo tenevamo vicino al buco da dove entrava un po' d'aria da respirare...
mentre chi si trovava in fondo al container si agitava disperatamente, urlava,
piangeva. È possibile vedere ancora deportazioni di massa dentro i container?
Quando ci hanno arrestato poi, i libici non ci hanno chiesto perché fossimo in
Libia e cosa volessimo. Eravamo semplicemente la preda dei poliziotti, eravamo
donne da stuprare e uomini da bastonare. Pochi giorni fa ho incontrato una
persona che lavora a Tripoli e mi ha detto che tra gli ultimi respinti in mare
verso la Libia c'era una ragazza di 22 anni che è stata violentata dai
poliziotti libici appena arrestata. Alla fine è riuscita a evadere, corrompendo
una guardia, ma ora è incinta e non vuole far nascere un figliastro di cui non
conosce nemmeno il padre... Perché tutto questa indifferenza verso la
sofferenza degli altri, oltretutto provocata dall'Italia stessa? Dov'è la "civiltà"
di un paese che finanzia un soggetto terzo per eseguire il lavoro sporco e
lavarsene le mani come Pilato? Quando smetterà l'Italia di essere il
"mandante" di queste violenze?
Guarda caso poi, dopo la "deportazione" i poliziotti libici ci
vendettero per 30 dinari a testa (circa 18 euro) agli intermediari che poi ci
riportarono sulla costa.
Anche noi abbiamo dei genitori che piangono pensando alle sofferenze che
viviamo. Ma anche noi avremo giustizia per tutto quello che stiamo subendo. Oggi
paghiamo il prezzo che i vostri governi hanno deciso di pagare per far godere al
"popolo" la sicurezza energetica. Ma le lacrime e il sangue versato non saranno
dimenticati. Uso le ultime parole che mi sono rimaste, l'ultima energia dopo due
anni di battaglia su questo tema ma spero di poterlo avere ancora. Ho girato
l'Italia, partecipando a centinaia di incontri e di proiezioni (di "Come un uomo
sulla terra", ndr.) e ringrazio tutti coloro che mi hanno fatto vedere la loro
indignazione e la loro vergogna di essere rappresentati da questi governi
ipocriti.
Ma mi chiedo: se io che grido da qui non ho ascolto, figuriamoci i miei fratelli
che stanno nella bocca del lupo. Ma continuo a gridare lo stesso e dico:
Italia tu che sei civile e potente guarda queste persone e ricordati cosa hai
fatto ai loro nonni.
Dagmawi Yimer l’Unità 5.7.10
«Dal Darfur
alla Somalia. Le crisi umanitarie non fanno notizia»
Intervista a Laura Boldrini.
La portavoce dell’Agenzia Onu per i rifugiati: «Si parla di questi drammi
solo quando c’è polemica politica, stampa italiana poco attenta al mondo»
L’amara verità è che, sempre più spesso, si parla di situazioni
umanitarie solo quando si arriva alla polemica politica. Se manca questa, di per
sé la questione umanitaria perde di importanza, tende a scomparire. E’
come se ci fosse bisogno della diatriba politica per accendere i riflettori su
vicende che invece meriterebbero indipendentemente attenzione e
approfondimento». A sostenerlo è Laura Boldrini, portavoce in Italia dell’Unhcr,
l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. «I media italiani rimarca
la portavoce dell’Unhcr hanno accolto e alimentato una equazione spesso
veicolata dalla politica, cioè immigrazione = minaccia alla sicurezza...».
Gli appelli disperati lanciati dai 245 eritrei dal lager libico,
non sembrano incrinare il Muro dell’indifferenza di molti, la stragrande
maggioranza, dei media italiani. Perché?
«Fare uscire delle notizie legate a crisi umanitarie come questa, è una
specie di percorso ad ostacoli. La prima prova consiste nel convincere il
giornalista che si occupa di questi argomenti e coinvolgerlo al punto che sia
poi lui a farsi carico e a far passare il pezzo con il responsabile del
servizio. Negli ultimi tempi, poi, è sempre più diffusa la richiesta di avere
una esclusiva o una anticipazione, il che finisce per bruciare la notizia con
gli altri organi di stampa. Quello che emerge chiaramente è che la stampa
italiana è più concentrata sulle questioni interne e sembra trascurare quello
che accade nel resto del mondo con delle gravi conseguenze sull’opinione
pubblica...».
Di nuovo: perché?
«Perché se gli italiani avessero maggiori informazioni sui Paesi di origine
dei rifugiati che cercano protezione in Italia, avrebbero maggiore
predisposizione e comprensione nei loro confronti...».
Invece?
«Invece della Somalia, dell’Eritrea, del Darfur e di tante altre situazioni,
si dice e si scrive troppo poco , addirittura niente per mesi. La triste verità
è che sempre più spesso si parla di situazioni umanitarie solo quando si
arriva alla polemica politica. Se manca questa, di per sé la questione
umanitaria perde di importanza, tende a scomparire, non fa notizia...È come se
ci fosse bisogno della diatriba politica per accendere i riflettori su
situazioni che invece meriterebbero indipendentemente attenzione e
approfondimento. Questa attitudine mediatica può causare un isolamento
culturale dell’Italia nel contesto internazionale. Ci sono quotidiani, come Le
Monde, che per tradizione hanno l’apertura sulle notizie internazionale, e lo
stesso discorso vale per lo spagnolo El Pais o il britannico Guardian. Mi
farebbe piacere che anche in Italia si andasse in questa meritoria direzione,
offrendo agli italiani una fotografia più allargata, tale da consentire una
lettura più ampia dei fatti. E poi c’è un altro aspetto da sottolineare...«.
Qual è questo aspetto?
«Per alcune notizie che anche riguardano il nostro Paese, i media italiani ne
parlano solo dopo che queste notizie sono uscite sui giornali stranieri. Voglio
aggiungere che in questi anni, per quanto riguarda le questioni migratorie, i
media hanno accolto e alimentato una equazione spesso veicolata dalla politica,
cioè immigrazione= minaccia alla sicurezza, senza passare attraverso una
analisi del cambiamento della società italiana e degli aspetti, soprattutto
positivi, di questo fenomeno».
Può fare un esempio in merito?
«Riportare la diminuzione degli sbarchi nel 2009 e la riduzione delle domande
di asilo semplicemente come un dato, senza chiedersi che cosa questo implichi in
termini di fruibilità del diritto di asilo».
È solo questione di sottovalutazione, di provincialismo, o c’è
anche la perdita del «diritto all’indignazione»?
«Raccontare le storie altrui, significa farsene carico. Io ho voluto scrivere
un libro, “Tutti indietro”, per raccontare anche storie di immigrazione,
dando voce a chi arriva. Ad uscirne fuori, è l’altra faccia della medaglia:
quella sconosciuta all’opinione pubblica».
U. D. G.
l’Unità 6.7.10
Per tutto questo firma la PETIZIONE 49 alla nostra pagina delle petizioni