Quelli senza pane


Torno a rileggere il Vangelo di Matteo nel brano del giudizio: «Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare». Lascio il libro aperto sul tavolo e percorro le scale della Casa della Carità dal mio studio, che si trova al secondo piano, giù fino alla mensa. Mi metto a tavola con gli ospiti e mi scopro a sognare una città fatta di case e di famiglie ospitali. Penso alla forza di una Chiesa che si spinge oltre, anticipando con una fretta quasi sorprendente il desiderio di umanità che ciascuno porta nel cuore. Vedo Sahid che aggredisce un piatto di pasta, ormai perfettamente abituato alla nostra cucina. Dentro di me sorrido per le grandi sorprese che ci riserva la scoperta dell’altro quando abbiamo il coraggio di deporre il pregiudizio, quando siamo capaci di non irrigidire i confini. Nei suoi viaggi tra mondi comunitari e di confine Sahid ha saputo imparare anche un po’ di rumeno, che qualche volta usa quando gli viene chiesto di aiutarci ad accudire alcuni piccoli della comunità rom. È il  meticciato della condivisione, dove tutti possono stare a mensa, senza la carestia dell’ingiustizia. Risalgo nella cappella, la stanza segreta dove il silenzio si fa ascolto, e mi soffermo sul bellissimo libro di Rut, che invito a leggere e rileggere per la delicatezza con cui si narra di una vicenda di migrazione al femminile, del coraggio di due donne - di Rut e prima ancora della suocera Noemi, che compie con lei il viaggio - nel mettersi in cammino verso un’altra terra. Grande protagonista di questo libro è la fame, la mancanza dei beni primari di sussistenza, che spinge a viaggiare per trovare una prospettiva di vita. «Noemi allora si alzò con la sua nuora per andarsene dalla campagna di Moab perché aveva visitato il suo popolo dandogli pane» (Rr 1,6).

Piano piano, leggendo il libro, si scopre che dal cuore di Rut emerge un desiderio profondo: non solo trovare pane, ma anche un marito, dei figli, un lavoro, una discendenza. Le due donne cercano un futuro nella terra dove approdano. Avere un futuro nel Paese degli stranieri! È per questo che la  palestinese, la moabita Rut, parte con grande coraggio. Mi vengono in mente le molte donne accolte nella Casa della Carità e i loro viaggi duri e determinati. Noemi e Rut, la giudea e la palestinese, viaggiano legate da un comune destino. La loro alleanza è un legame forte e pieno di tenero affetto. Entrambe vedove, possono contare inizialmente su loro stesse e sull’affetto che si scambiano, in  un’alleanza tra donne che rigenera la forza.

Leggo l’inizio del piccolo libro di Rut che parla di carestia, per poi scoprire una chiusura segnata dall’abbondanza, dove la speranza si fa segno concreto. Dalla fame nasce il movimento della migrazione interiore di due donne, dalla fame nasce la spiga che darà il pane. Dal grembo di Rut nascerà anche la vita, la continuità dell’incontro tra giudei e stranieri che costituisce l’ibrido benedetto dal quale discenderà il popolo di Dio. Rut diventa madre di Obed, che genera Iesse, che genera Davide. E dalla stirpe di Davide discenderà il Figlio dell’Uomo. Avere fame è l’esperienza che dà radici alla nostra fede. La carestia è grande protagonista nella storia della salvezza, spinta che indurrà tutti i patriarchi a migrare per fame e per trovare felicità di futuro. Ci sono parole intense e inequivocabili che la Bibbia riserva all’uomo migrante. Leggiamo nel libro del Deuteronomio: «Dio rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate, dunque, il forestiero» (Dr 10,18-19). L’integrazione diventa possibile se nella mensa comune ciriconosciamo tutti debitori e creditori, liberi fruitori di un cibo gratuito. L’integrazione fa «dei due un popolo solo» (Ef 2,14). Cade il muro tra «Giudei e Greci, schiavi e liberi, uomini e donne» (Gal 3,28). La terra è dunque di Dio: tutti gli uomini vi passano, vi faticano, vi migrano, vi dimorano, vi riposano. Senza avere esclusive. Senza mai dire: «Questo è mio!» Senza mai poter pensare di vivere da soli. Rifletto su questa Parola di Dio così incisiva e percorro di nuovo le scale fino alla mensa. Cammino, ma sento che sto compiendo un movimento quasi simbolico, per tornare con loro, con gli ospiti, con gli operatori di turno, con chi compie i lavori semplici che rendono viva la Casa. Ho fame con loro, ho fame di condivisione e di giustizia.

Concludo questo primo passo con la sferzante risposta di un testimone straordinario, l’Abbé Pierre, che così si rivolge a chi lo interroga sui temi della pace e della povertà:

«Dentro di me scoppio quando sento certe cose! Sono ferito dalle ferite di questi piccoli che si è andati a saccheggiare in

nome di uno sviluppo e un cammino che non sono mai arrivati! Se non ci si sente feriti dalla ferita

dell’altro, si rimane a casa a guardare la televisione e si emettono assegni a favore di un’opera per

dirsi con la coscienza tranquilla: Ho dato! Non serve a nulla dare se non si è feriti dalla ferita

dell’altro».

 

 Virginio Colmegna*      l'Unità  6 giugno 2008

 * direttore della Casa della Carità di Milano  (testo tratto dal libro “Ho avuto fame”, Sperling & Kupfer)