Quelle leggi
razziali “italiane”
Le vie delle parole sono, talvolta, imperscrutabili. Nel linguaggio della
politica, che si fa alla
giornata su improvvisazione dettata dalle circostanze e ciononostante lascia il
segno, l’aggettivo
irrituale ha ormai un che di scostante. Designa qualcosa di quasi inammissibile,
secondo le regole
del gioco. Le parole pronunciate qualche giorno fa dal presidente Napolitano
dando il via al
Quirinale alle celebrazioni per il Giorno della memoria, riportano invece alla
valenza positiva di
questo termine. Nel contesto di una ricorrenza che è ormai il (troppo) capiente
contenitore di
cerimonie monotone e parole che a forza di ripeterle suonano a vuoto, il suo
breve discorso è stato
decisamente irrituale. Ma nel senso migliore e soprattutto più profondo che
l’aggettivo porta con sé:
quello di uscire dagli schemi del rito per entrare nel contesto del significato,
rammentando all’Italia
le sue leggi razziali. La memoria non è di per sé terapeutica. Come diceva Primo
Levi, il fatto che
sia accaduto non azzera, anzi moltiplica le probabilità che accada di nuovo. La
memoria non è uno scudo inossidabile, di fronte al male.
È una necessità, forse un tributo a chi non c’è più. Ma di per sé non serve
affatto, se non a risvegliare sentimenti inesprimibili. La percezione della
storia attraverso
la memoria è invece istruttiva: guardare al passato per capire che cosa e come
siamo. Da dove
veniamo, insomma. E il presidente Napolitano ci ha ricordato che l’Italia di
oggi viene anche
dall’infamia delle leggi razziali.
Gli italiani amano denigrarsi, sparlano del proprio Paese e delle sue
disfunzioni con un narcisistico
compiacimento. Guai però a toccarne gli aspetti più profondi, il «carattere
nazionale», dentro il
quale vige tenace l’immagine degli italiani «brava gente». Quasi incapaci di
far male a una mosca, e
quando capita è per cause di forza maggiore. Eppure, a dispetto di questo
inossidabile stereotipo,
settant’anni fa esatti questo Paese è stato capace di sfoderare una legislazione
razziale che non fu
seconda a nessuno. Nemmeno alla Germania nazista, se restiamo sul piano dei
documenti giuridici
con cui la storia si racconta. «Leggi che suscitarono orrore negli italiani
rimasti consapevoli della
tradizione umanista e universalista della nostra civiltà», ha ricordato il
presidente Napolitano parlando delle leggi razziali del 1938 come mortali
apripista della Shoah.
È tutto terribilmente vero.
Il censimento degli ebrei italiani che nell’agosto di quell’anno fu l’astuta
premessa per una
applicazione «a tappeto» delle leggi razziali emanate nell’autunno successivo,
costituì dopo l’8
settembre 1943 un comodo strumento per i tedeschi a caccia di stücke («pezzi»
come loro
chiamavano i deportati) per i vagoni merci, i campi di sterminio, i forni
crematori.
Le leggi razziali, in cui «Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e per volontà
della nazione re
d’Italia - imperatore d’Etiopia» decreta e firma i provvedimenti insieme con
Mussolini, sono un
vero monumento all’infamia. Stabiliscono una serie di restrizioni che vanno dal
divieto di contrarre
matrimonio misto a quello di firmare manuali scolastici, proibiscono agli ebrei
italiani di avere
dipendenti, di essere dipendenti di enti statali, banche, assicurazioni, di
prestare servizio militare,
possedere terreni e aziende. Pretendono, con brutale ottusità, di definire
l’appartenenza ebraica intermini di sangue (art. 8, comma a: «È di razza ebraica
colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se appartenga a
religione diversa da quella ebraica») con paradossale precisione (comma c: «È
considerato di razza ebraica colui che è nato da madre di razza ebraica qualora
sia ignoto il padre»).
Queste leggi, tanto spietate quanto assurde, non furono un meteorite
precipitato sul ridente pianeta
Italia da una remota e maligna regione siderale. Furono il prodotto di forze
congiunte: il regime
fascista, la consenziente monarchia (i cui degni eredi, forse perché non hanno
più nessun regio
decreto da firmare, si son dati allo sport, con risultati davvero eccellenti nel
lancio di boutades) e il
popolo italiano. Stretto nelle maglie di questa orribile storia, che tuttavia è
proprio la sua.
Elena Loewenthal La Stampa 8 settembre 2008