Quelle grottesche
revisioni
Ormai parecchi anni fa avevo scritto sul Corriere un articolo in
cui parlavo di un documento che mi
era capitato per caso fra le mani, la relazione con cui nel 1907 il direttore
didattico della scuola
elementare di Tolmezzo, in Carnia, dichiarava, con sincero dispiacere, di non
poter confermare
l'incarico a un supplente «di non comuni risorse intellettuali», appassionato
dell'insegnamento, ma
privo di metodo, incapace di «applicarsi con ordine», e soprattutto di tenere la
disciplina nella
seconda classe elementare. Il supplente si chiamava Benito Mussolini e veniva
spontaneo, in
quell'articolo, parlare con umana simpatia di quel pasticcione che aveva a cuore
gli scolari, viveva
una grama esistenza con 75 lire al mese e si abbandonava, in quella sua stagione
socialista, a
scomposte proteste rivoluzionarie, ad irriverenti sceneggiate anticlericali e ad
amori disordinati; un
uomo che meritava di diventare qualcosa di meglio di un duce.
Oggi quel mio articolo, scritto a quel modo, rischierebbe di risultare ambiguo;
di non essere più la
testimonianza di una comprensione umana, bensì di cooperare a quella
strisciante, crescente,
aberrante falsificazione della storia patria che si sta diffondendo sempre più e
divenendo, in nome di
una falsa equanimità imparziale, una vera riabilitazione se non celebrazione del
fascismo,
dimenticando che quel supplente — per il quale continuo a provare simpatia,
rispetto e quasi
tenerezza — è anche l'uomo che a Trieste, nel 1938, ha proclamato con
imperdonabile e stupida
enfasi le infami leggi razziali. C'è un'aggressiva negazione dei valori della
Resistenza e della
democrazia che pare voglia costringerci a ridiventare ciò che speravamo
veramente di non aver più
bisogno di essere ossia intransigenti antifascisti, posizione che ritenevamo non
più necessaria e
dunque finita, nel presupposto che non solo il fascismo fosse finito ma che
anche il giudizio su di
esso, pacato e comprensivo di tutti gli elementi umani ma chiaro e netto sul
piano politico, fosse
definitivo.
Ora sembra che troppi sprovveduti e malintenzionati ci vogliano far
tornare indietro, a ripetere —
cosa che non vorremmo proprio — «no pasarán». Il revisionismo storico sta
diventando la caricatura o la perversione di se stesso.
È certo necessario rivedere ossia integrare o correggere
la storiografia dei vincitori, in questo caso della Seconda guerra mondiale;
anche contestare la retorica e la strumentalizzazione politica della Resistenza,
ricordarne le contraddizioni e i crimini di cui pure
essa si è anche gravemente macchiata. Cose del resto da tempo indagate e dette —
come ricorda il
recente libro di Sergio Luzzatto, recensito sul Corriere da Aldo Cazzullo —
dagli storici, purtroppo
poco ascoltati anche dall'opinione moderata finché politicamente quelle verità
non servivano. D'un
tratto, invece, quelle stesse cose, quelle stesse verità, sono state ripetute,
strombazzate ed esagerate,
grazie a tanti improvvisati pseudostorici, quando sono divenute un'arma nella
lotta politica attuale.
Un grande poeta e fuoriuscito antifascista come Giacomo Noventa auspicava la
fine
dell'antifascismo in quanto non più necessario. È da mio padre, mazziniano e
prima militante nel
Partito d'Azione, che ho imparato come sia imbecille dare del «fascista» a chi
professa opinioni che
si avversano o anche si detestano. La fermezza di giudizio va unita alla pietas
e alla comprensione
— che non significa giustificazione — delle cause storiche e delle passioni che
hanno portato
individui e comunità — che possono condurre ognuno di noi — a scelte disastrose
e colpevoli.
Occorre comprendere i motivi e i sentimenti che hanno generato il fascismo,
bollare le sue infamie,
valutare serenamente alcuni suoi risultati; condannare senza sfumature il suo
totalitarismo e
sciovinismo, e capire ciò che ha spinto alcuni spiriti generosi, spesso divenuti
in seguito suoi
avversari o vittime, a credere in esso, come ad esempio Piero Iacchia, di
famiglia ebraica,
inizialmente fascista e poi caduto combattendo in Spagna contro i franchisti.
Ora invece — per citare un altro esempio — la giunta comunale di Trieste ha
deciso di intitolare
una via a Mario Granbassi, un buon giornalista triestino specialmente
radiofonico, morto in Spagna
combattendo, da volontario, dalla parte dei franchisti. Tale decisione ha
suscitato molte proteste, fra
cui quelle di numerosi spagnoli, in particolare catalani; cittadini di quella
Catalogna i cui civili
furono vittime dei bombardamenti degli aerei fascisti italiani. Dissentire da
questa decisione di
intitolare una via a Mario Granbassi non significa mancare di rispetto né alle
sue qualità
professionali né ai suoi sentimenti personali che l'hanno portato alla morte;
non significa
condannarlo, ma soltanto considerare inopportuna la sua glorificazione. Non
avere una via che porti
il proprio nome non vuol dire subire un'ingiustizia. Neppure quelli che lo
meriterebbero godono
tutti di tale onore: non mi consta che le migliaia di alpini morti eroicamente
in Russia, dove il
fascismo li aveva mandati con irresponsabile e cinica incoscienza, abbiano
ognuno una via intestata
al suo nome. Nella guerra di Spagna a salvare l'onore italiano sono stati uomini
come Randolfo
Pacciardi, medaglia d'argento della Prima guerra mondiale, antifascista,
comandante delle truppe
antifranchiste che sconfissero a Guadalajara quelle falangiste e i loro alleati
fascisti italiani,
magnanimo con questi ultimi fatti prigionieri e difensore degli antifascisti
anarchici perseguitati a
morte dai comunisti in quella stessa Catalogna.
Un autentico antifascista non rimuove la consapevolezza delle colpe compiute
dalla sua parte.
Nemmeno si tratta di considerarsi personalmente migliori di chi ha fatto la
scelta di Granbassi, così
come non mi passa per la testa di considerarmi migliore di un mio carissimo
cugino, Gustavo,
morto a diciott'anni volontario nelle file di Salò, e non solo perché l'età
(avevo quattro anni nel '43)
non mi ha dato la possibilità di commettere questo errore disastroso — che
tuttavia resta tale,
perché, se la parte per la quale mio cugino è morto avesse vinto, il mondo
sarebbe divenuto una
Auschwitz. La buona fede va rispettata, ma sapendo che si possono commettere
pure cose orrende
in buona fede.
L'unità e la pacificazione di un Paese non sono un frullato che sminuzza e
confonde tutto, non sono
una media fra gli opposti — Gobetti più Starace fratto due — bensì esigono una
base di valori
comuni, che ne escludono altri. L'inno patriottico francese, la Marsigliese, non
è un compromesso
fra tutte le parti e le ideologie in lotta, bensì l'espressione di una precisa
scelta di campo, in cui il
Paese riconosce la propria identità.
Nessun astio dunque, ma solo rispetto — per tornare a uno degli esempi citati —
per Mario
Granbassi, che ha vissuto la sua vita e la sua morte e non ha chiesto che gli
venisse intestata alcuna
via. E che non è responsabile di quella grottesca casualità che — grazie all'
ironia della realtà, la
quale ci dà spesso belle sberle — fa passare la voglia di ogni indulgente
strizzatina d'occhi al
fascismo: la via che gli era stata dedicata nel 1939, anno della sua morte, dal
commissario
prefettizio dell'epoca, con un procedimento più tardi revocato, portava un altro
nome, quello dello storico Samuele Romanin, allora cancellato perché ebreo. È
bene che le autorità vadano caute con la toponomastica, scienza pericolosa che
può fare brutti scherzi.
Claudio Magris Corriere della
Sera 26 ottobre 2008