Quella maxirissa tra monaci nella Basilica del Sepolcro


D'accordo, è dovuta intervenire la polizia dei "fratelli maggiori" ebrei a sedare quella rissa fra le
reliquie trasmessa in mondovisione che pare inventata di sana pianta dagli anticlericali. E si dirà che
vanno avanti a darsele così da secoli le trenta comunità cristiane di Gerusalemme, tanto da non
racimolare più di quindicimila fedeli nella Città santa del supplizio e della resurrezione di Gesù.
Eppure la Basilica del Santo Sepolcro profanata di nuovo ieri, in una domenica festiva, non merita
la cattiva fama circolante fra i pellegrini che la descrivono come luogo privo di pathos, funestata
com'è dal cicaleccio delle comitive pronte a scattare foto sulla scala del Golgota e perfino nella
cripta tombale; deturpata da nuove pareti divisorie nelle aree contese tra cattolici e ortodossi;
mentre sul tetto somigliante a un villaggio africano si guardano in cagnesco i copti e gli etiopi.
Nulla di simile sarebbe concepibile al Muro del Pianto, dove pure gli ortodossi cercano di vendere
indulgenze agli ebrei più sprovveduti. Né tanto meno sulla Spianata delle Moschee, che i non
musulmani ormai possono rimirare solo dall'esterno. Ma è proprio la vitalità di quel conflitto fra
cattolici, copti e quattro diverse chiese ortodosse (i protestanti ne sono tagliati fuori) a fare del
Santo Sepolcro qualcosa di diverso da un monumento. E' un luogo moderno, privo di fascino
architettonico o tanto meno artistico, destinato probabilmente a subire nuovi crolli e nuovi incendi
come già più volte nel passato, che trae santità dalla sua prosaicità. Non si dispiaceranno gli amanti
della solennità liturgica vaticana se affermo che in quelle barbe strappate, nella povertà delle vesti
monacali e nella modestia acrilica dei suoi arredi sacri c'è forse una fotografia più veritiera della
cristianità contemporanea, ben al di là della pompa magna di San Pietro.
La leggenda vuole che nell'estate del 637, conquistata Gerusalemme, il primo vicario di Maometto,
califfo Omar Ibn Kattab, ebbe la lungimiranza di non fermarsi a pregare nella basilica fatta costruire
da Sant'Elena, madre di Costantino, sul luogo della Passione. Altrimenti lo avrebbe reso sacro
all'Islam, rendendolo oggetto di contesa come in effetti è accaduto per la Spianata del Tempio
ebraico su cui sorsero la Moschea al-Aqsa e la cupola dorata del Duomo della Roccia. Dunque
nessuna controversia con i musulmani sul Sacro Sepolcro. Ma quattordici secoli fa i cristiani erano
già divisi come lo sono oggi. Si è rivelata saggia dunque la scelta di affidarne la custodia alla
famiglia musulmana dei Nuseibeh, che tuttora la detiene. L'unico periodo in cui venne meno la
sovrintendenza dei Nuseibeh, cioè il breve regno latino imposto dai crociati su Gerusalemme (10991187),
coincise infatti con una sottomissione feroce della Chiesa bizantina. Lo scisma si
manifestava violento proprio là dove il cristianesimo fu generato, avviando l'opera di dispersione
per cui oggi i seguaci di Gesù restano solo l'1% degli abitanti del Medio Oriente.
Neanche la Basilica della Natività, nella vicina Betlemme, è rimasta immune da una contesa
perimetrale capace di accendere ostilità furibonde e di degenerare in colpi di mano. Ma è il Santo
Sepolcro - la cui corrispondenza reale al luogo in cui si consumò la Passione del Cristo rimane
peraltro dubbia - a ribollire nei secoli come luogo controverso in perenne evoluzione. Non riuscirà
mai a diventare un monumento vincolato dalle Belle Arti. La sua mappa interna sarà eternamente
ridisegnata dall'irrequietezza cristiana e dal cemento. Per questo le botte da orbi il giorno
dell'Esaltazione della Croce possono essere intese come scandalosa caduta di empietà. Ma più
saggio sarebbe intenderle come urlo di fede disperata, inelegante ma vitale, l'anelito di chiese
millenarie che non meritano di essere derubricate a folklore

Gad Lerner     La Repubblica  10 novembre 2008


 

 

Le futili ragioni dell'odio fra cristiani


Proprio in un mondo in cui la religione si coniuga sempre più al plurale desta particolare scalpore la
violenta rissa tra monaci armeni e greco ortodossi scoppiata ieri nella Basilica del Santo Sepolcro a
Gerusalemme. Una zuffa senza esclusione di colpi, come dicono le cronache, con un ricco
repertorio di pugni e calci, e l'uso di candelabri per supportare le proprie ragioni. La polizia
israeliana, intervenuta prontamente (forse perché già allertata) per sedare la rissa da stadio, ha
fermato due monaci «rivali», ma conta tra le fila due feriti. Al di là del motivo contingente dello
scoppio del conflitto (con i monaci armeni che hanno accusato quelli greco ortodossi di non aver
lasciato libero il campo in occasione della loro cerimonia annuale della croce), è utile comprendere
perché quello del Santo Sepolcro è uno spazio in cui il fuoco cova costantemente sotto la cenere. La
rissa di ieri non è occasionale e riflette una situazione esplosiva che da anni coinvolge tutti gli attori
religiosi che si dividono questo luogo sacro, unico per la sua importanza. In un ristrettissimo spazio
sacro si riverbera una storia di divisioni del cristianesimo, che si sono cristallizzate nel tempo e
continuano tutt'oggi.
La centralità del Santo Sepolcro (per le confessioni cristiane) è evidente, dal momento che esso è il
solo spazio in cui si possa dire con una certa sicurezza che l'evento salvifico e quello storico
coincidano.
Tutto si svolge attorno al monte Sion, sulla cui spianata c'è la moschea (che ricorda il luogo in cui
Allah ha consegnato a Maometto il Corano), sul lato sinistro è situato il muro del pianto (ultima
traccia del tempio di Salomone), mentre più spostato è ubicato il Santo Sepolcro. Nel raggio di
nemmeno due chilometri, vi sono i maggiori luoghi della memoria delle tre grandi religioni del
Libro. All'interno di questo luogo fondamentale della memoria, si assiste alla cogestione del Santo
Sepolcro da parte di sei comunità. In primis le quattro chiese che gestiscono la Basilica (la greco
ortodossa, l'armena, la copta e la latina); sul tetto della Basilica vi sono altre due comunità
monastiche, una della chiesa copta ortodossa, l'altra di quella etiope ortodossa, che si contendono da
sempre questo spazio.
Tra queste diverse confessioni religiose (e gli «inquilini» monaci che le rappresentano) la
convivenza è difficile, per varie ragioni.
Anzitutto è assai arduo organizzare e dividere l'uso temporale dello spazio comune, in quanto la
porta e la navata sono uniche e non è detto che le celebrazioni di una confessione religiosa (messa,
processione, pellegrinaggio) terminino in modo cronometrico prima che inizino quelle di un'altra
chiesa. Si può stabilire quando inizia una liturgia, mentre è più difficile prevedere quando essa
finisce o di quanto può sforare rispetto ai tempi previsti; ciò perlomeno se si ha una concezione
«vitale» e non meccanica degli eventi liturgici. All'interno di questo quadro, c'è la questione
plurisecolare dei calendari, in quanto le diverse chiese non hanno un calendario liturgico comune.
Per cui c'è il rischio talvolta della coincidenza di festività importanti nello stesso giorno, che crea
tensioni e suscettibilità tra le diverse confessioni.
Oltre a ciò, le diverse chiese sono rappresentate nella basilica da comunità monastiche, che non
sono espressione di una comunità allargata di fedeli. I fedeli che frequentano il Santo Sepolcro sono
i pellegrini che vi giungono da tutto il mondo, per cui i monaci delle diverse chiese nel rivendicare
il loro spazio nell'ambiente intendono difendere anche quel diritto al pellegrinaggio dagli evidenti
risvolti culturali ed economici.
Infine, da tempo si rende necessaria un'opera di restauro della basilica, che rischia il crollo per
rilevanti problemi di statica. Alcune comunità di monaci presenti non condividono gli interventi,
ritenendo che essi siano invasivi e possano alterare gli aspetti reali e simbolici del luogo santo. Così
un luogo sacro per eccellenza come il Santo Sepolcro continua a essere ancor oggi un fattore di
tensione e conflitto tra le confessioni religiose cristiane.

Franco Garelli     La Stampa 10 novembre 2008


 

Rissa tra monaci e preti al Santo Sepolcro


Non è la prima volta e non sarà l´ultima. Ma ieri è corso il sangue dentro la Basilica del Santo
Sepolcro, dopo che l´ennesima disputa tra pope greco-ortodossi e monaci armeni è degenerata in
una rissa da saloon, a calci e pugni, ceri branditi come bastoni, tabernacoli rivoltati, inseguimenti e
agguati nella penombra delle navate, pellegrini in fuga terrorizzati. Con intervento finale della
polizia israeliana in tenuta antisommossa e arresto di due tra i più focosi contendenti.
Cos´era successo? Niente che non si potesse risolvere con una discussione. Ma si sa che, da secoli,
il santuario consacrato alla morte di Gesù, così come, a Betlemme, quello dedicato alla sua nascita,
alberga rivalità insanabili tra le sei Chiese che si contendono la gestione dei luoghi sacri della
cristianità. Tre in posizione dominante: la Chiesa ortodossa greca, la Chiesa apostolica armena, la
Chiesa cattolica romana. E tre con influenza più limitata: la Chiesa Ortodossa Copta, la Chiesa
Ortodossa Etiope e la Chiesa Ortodossa Siriaca. Il che comporta che i principali luoghi santi nella
terra di Gesù si siano trasformati nel tempo in un litigioso condominio regolato da un garbuglio di
norme scritte e non scritte, in un sovrapporsi di tradizioni e prassi le più disparate e in un caotico
susseguirsi di messe, processioni, rosari e liturgie varie. Ciascuna delle sei confessioni muovendosi
con sospettosa diffidenza nei confronti delle altre, all´interno del proprio lotto di santità e
competenza, stabilito nel Decreto di Status quo emanato nel 1852 dalla Sublime Porta. In questa
situazione è giocoforza che, ogni uno e due, qualcuno dei «condomini» lamenti un torto, una lesione
del proprio diritto. O che non trovino l´accordo neanche quando si tratti di restaurare la cupola o di
aprire una porta d´emergenza.
Così, ieri, la processione degli armeni, in ricordo del ritrovamento della croce di Gesù, che sarebbe
avvenuto nel IV Secolo, s´è scontrata con la richiesta dei greco ortodossi di permettere ad un
monaco di sostare dentro l´edicola del Santo Sepolcro, dove si crede sorgesse la tomba di Gesù, che
secondo lo Status quo è di competenza della Chiesa armena, e attraverso cui la processione sarebbe
passata. Gli armeni hanno opposto un netto rifiuto e hanno proseguito la loro marcia verso l´edicola.
Ma ecco un gruppo di giovani monaci greco-ortodossi sbarrare loro la strada. E qui è esplosa la
baraonda. Calci, pugni, testate, oggetti che volano da una parte all´altra. Rissa? Macché.
«Resistenza», la chiama un giovane monaco di nome Serafim, con barba e codino all´uso greco-
ortodosso e un taglio vistoso sotto l´occhio sinistro, provocato, a suo dire, dal codardo attacco alle
spalle da parte di un religioso armeno. «Ci siamo opposti al loro tentativo di stabilire un diritto che
non hanno e se necessario continueremo a resistere». Padre Pakrat, del Patriarcato armeno,
capovolge l´ordine degli eventi: «I greco-ortodossi ci hanno attaccati per primi». E comunque «la
loro richiesta era illegittima».
In pochi minuti la chiesa pullulava di agenti della polizia di frontiera. Gli uomini delle squadre
antisommossa hanno preso posizione tra la scala che conduce al Golgota e la lastra di marmo dove
si crede sia stato unto il corpo di Gesù. Poi, al segnale di un ufficiale, sono intervenuti. Due
reverendi padri insanguinati sono stati portati via in manette. La calma e tornata soltanto dopo il
tramonto quando, secondo una prassi antica di quasi mille anni, il padre guardiano s´è chiuso il
portone di legno dietro le spalle non senza aver prima consegnato le chiavi, attraverso uno sportello
provvidenziale al rappresentante delle due famiglie gerosolimitane di fede islamica, i Nashashibi e
gli Joudeh che, per volontà del conquistatore Saladino, devono vegliare sulla culla della cristianità.

Alberto Stabile     la Repubblica  10 novembre 2008