QUELL'ETICA LAICA DEL "CHE" CHE HA TANTO DA INSEGNARE AI CRISTIANI.

INTERVISTA A GIULIO GIRARDI SUL SUO ULTIMO LIBRO

 

 La contraddizione, all'apparenza, sembrerebbe enorme: un teologo cristiano che scrive un libro su un ateo materialista, un sacerdote sostenitore della nonviolenza attiva che si misura con la vita di un guerrigliero marxista. Eppure nell'ultimo libro di Giulio Girardi, "Che Guevara visto da un cristiano" (Sperling & Kupfner 2005, pp.306, euro 11,50) di queste contraddizioni non c'è traccia: le due visioni della vita e del mondo, quella del credente e quella del rivoluzionario, non solo non emergono come antitetiche, ma il teologo, nel corso della sua indagine, trova moltissimi punti di contatto tra l'etica laica praticata da Che Guevara ed il progetto di amore liberatore contenuto nel messaggio evangelico. Ed è proprio alla luce del messaggio di Gesù che Girardi ritiene la testimonianza di un militante rivoluzionario laico come il Che un imprescindibile punto di riferimento per ciascun cristiano che voglia vivere con radicale coerenza l'amore evangelico: non un amore astratto, autoreferenziale, ma un amore trasformatore, che sappia aprirsi al mondo (un amore che il Che avrebbe definito "internazionalista"), e comprendere e fare proprie le istanze di quella larga parte della popolazione mondiale che vive oppressa ed esclusa.
Segno di questa sintesi possibile (ed auspicabile) tra marxismo "umanista" e professione militante di fede è Camillo Torres, prete guerrigliero morto combattendo in Colombia nel 1966, cui Girardi dedica, non a caso, l'ultima parte del suo libro. Non si tratta (Girardi lo chiarisce più volte all'interno del volume), di raccontare miti del passato quasi si trattasse di fare "archeologia rivoluzionaria", ma, come scrive il teologo, di cogliere, nella biografia di questi rivoluzionari, "germi di un futuro ancora in gestazione".
Di seguito l'intervista che ci ha rilasciato Giulio Girardi su alcuni dei contenuti del suo libro. (valerio gigante)

Perché hai scritto questo libro?
Credo che un buon punto di partenza per rispondere sia l'analisi del titolo del libro, frutto di un fecondo scambio di idee con Gianni Minà e Antonella Bonamici: il riferimento all'autore come "cristiano" non vuol essere un'appropriazio-ne del guerrigliero eroico da parte del cristianesimo. Quella del Che è in realtà una dedizione eroica, ma laica. La ricostruzione della sua figura di cui il libro vuol essere un timido tentativo, intende appunto mostrare la possibilità e l'esisten-za di un'etica laica. Questo è forse difficile da ammettere per un cristiano abituato a ritenere che un'etica autentica non sia possibile senza un fondamento religioso. Difficile da ammettere particolarmente all'epoca di papa Ratzinger, che ritorna con insistenza - per esempio nel suo dialogo con i giovani - sullo stretto rapporto tra etica e religione cristiana; così nessuno spazio rimane aperto alla generosità laica. Né alle religioni non cristiane, con le quali pure si dice di voler tenere aperto il dialogo.

Qual è allora la caratteristica di questa "etica laica" del Che che ti ha maggiormente colpito?
La prima sorpresa per un cristiano che accosti l'etica rivoluzionaria del Che è, appunto, che egli non è cristiano. La seconda sorpresa è che l'ispirazione profonda della sua vita, della sua morte, della sua militanza, del suo progetto politico, del suo marxismo, è l'amore storicamente efficace. È, in altre parole, una solidarietà dagli orizzonti mondiali. A questa conclusione sono pervenuto sia riflettendo sull'impressio-nante coerenza che caratterizza la vita e il pensiero del Che, sia cercando di identificare il filo conduttore della mia ricerca. Mi ha confermato in questa convinzione un colloquio appassionante che ho avuto con Aleidita, figlia del Che. Mi ha parlato di un dibattito, cui aveva partecipato, tra diversi amici di suo padre, che si domandavano quale fosse il carattere fondamentale della sua personalità. Aleidita ricordava di essere intervenuta affermando con sicurezza: "Il carattere fondamentale del Che, quello che unifica tutta la sua vita, è l'amore". Aleidita poi richiamava la mia attenzione, con evidente commozione, su un aspetto inatteso della sua personalità di guerrigliero, quello della tenerezza. In realtà, il tratto fondamentale della personalità del Che è proprio la tenerezza, che egli non perde mai, per sua madre e suo padre, per la zia Beatriz, per le mogli Hilda Gadea e Aleida Marsch, per i figli ed anche per i tanti compagni e compagne di lotta. Nel fragore della battaglia, egli trova il tempo e la fedeltà per scrivere loro lettere affettuose.
In questo senso, un'espressione particolarmente eloquente di questa doppia dimensione dell'amore, si trova nel famoso testamento lasciato dal Che ai suoi figli: "Soprattutto siate capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualsiasi parte del mondo".

Insomma, sarebbe questo "amore storicamente impegnato" a costituire, a tuo giudizio, l'ispirazione fondamentale della vita e del pensiero del Che…
Direi non solo l'ispirazione, ma in qualche modo il "detonatore" che ha innescato tutta la sua evoluzione; d'altro canto, penso anche che questa evoluzione diventi a sua volta la spinta per un incessante approfondimento di ciò che significa "amore". Concretamente, questi cambiamenti nella vita e nella militanza di Che Guevara sono provocati dalle nuove esperienze che egli andava facendo, come per esempio i suoi viaggi attraverso il Continente latinoamericano o i suoi incontri con varie forme di oppressione: sono esperienze che per lui costituiscono un'autentica "scoperta dell'America", ispirata dalla maturazione dell'amore efficace, "scoperta" molto più profonda, direi anzi opposta, a quella attribuita a Cristoforo Colombo, ispirata solo da un progetto di conquista e di sfruttamento.

In questo percorso umano e relazionale del Che, che ruolo ha la sua scelta politica?
Credo rappresenti per il Che la svolta decisiva nella concezione e nella pratica dell'amore: per lui non vi è amore coerente che non implichi un impegno politico. In forza di questo impegno, l'amore assume dimensioni nazionali, continentali e universali, senza mai perdere però le sue radici nei rapporti personali. Ma d'altro lato per lui non esiste impegno politico autentico che non sia ispirato e alimentato dall'amore, da un amore gratuito che, per un guerrigliero, vuol dire un amore fino alla morte.
Questo impegno politico ispirato dall'amore si esprime nella scelta degli oppressi, che significa dedizione totale alla loro liberazione, e nello stesso tempo fiducia nella loro capacità di costruire un società nuova e un mondo nuovo. Fiducia nella validità del loro punto di vista, che per il Che è superiore al punto di vista degli intellettuali del grande capitale sia nell'analisi delle situazioni che nell'elaborazione delle strategie. Penso che questo incessante rapporto con le masse popolari debba caratterizzare ogni autentica avanguardia che non voglia cadere, o decadere, nell'autoritarismo. Difficile in tale contesto non evocare, per analogia, la scelta dei poveri su cui si fonda la Teologia della Liberazione…

Nel tuo libro ti soffermi lungamente ad analizzare in che modo si è evoluto il giudizio del Che sul socialismo sovietico…
Il Che inizia a svolgere una critica rigorosa del cosiddetto socialismo reale, autoritario e subalterno al socialismo sovietico, e ad elaborare quindi un progetto alternativo di socialismo, come spazio di maturazione e di incontro di libertà. Allo stesso modo il Che elabora anche una critica rigorosa del marxismo dogmatico, da cui parte per iniziare un ripensamento del marxismo in senso umanista e critico, che va in direzione di una "spiritualità della liberazione".
Questa concezione esprime la sua fecondità soprattutto nell'idea di socialismo proposta dal Che nel suo saggio fondamentale "Il socialismo e l'uomo a Cuba". Un saggio che si può considerare il manifesto del socialismo umanista.
Voglio ribadire che, a mio giudizio, il rivoluzionario è tale solo se è guidato da grandi sentimenti di amore. È impossibile pensare ad un rivoluzionario autentico senza questa qualità. I nostri rivoluzionari d'avanguardia devono idealizzare questo amore per i popoli, per le cause più sacre, e renderlo unico, indivisibile. Bisogna infatti avere una grande dose di umanità, un grande sentimento della giustizia e della verità, per non cadere in estremismi dogmatici, in scolastiche fredde e nell'isolamento dalle masse. Tutti i giorni bisogna lottare perché questo amore per l'umanità vivente si trasformi in fatti concreti, in atti che servano di esempio, che spingano alla mobilitazione.

Del resto nel tuo libro, oltre che una apologia del Che come uomo, c'è anche una strenua difesa della sua scelta "rivoluzionaria"…
Spero di non scandalizzare nessuno affermando che come teologo cristiano della liberazione mi riconosco profondamente in questo militante e pensatore ateo. Non per il suo ateismo, ma per l'impressionante coerenza con cui ha vissuto la scelta di stare al fianco degli oppressi come soggetti, scelta che è diventata per molti cristiani l'asse centrale della propria identità. A noi cristiani infatti questo militante laico offre un aiuto insperato per comprendere il significato della nostra fede nel mondo di oggi; insegnandoci, con la sua ricerca, la sua vita e la sua morte, le profonde esigenze di un amore non astratto, ma che aspira ad essere efficace e trasformatore; insegnandoci anche che il nuovo internazionalismo, al di là delle frontiere religiose, razziali e culturali, è l'alleanza mondiale di tutti coloro che credono nella forza liberatrice e creatrice dell'amore, vale a dire nel protagonismo degli oppressi impegnati a costruire un mondo nuovo.

Qualcuno, però, soprattutto in questi tempi in cui tanti, anche a sinistra, "scoprono" la nonviolenza, potrebbe rimproverare al Che di aver abbracciato la lotta armata… Tu stesso, recentemente, hai sostenuto il valore profondo dell'opzione nonviolenta…
C'è un'apparente contraddizione, ma credo che il mio modo di concepire la nonviolenza attiva non si contrapponga, come alcuni sostenitori di questa strategia pure potranno pensare, ad una violenza che io definisco "difensiva": non posso cioè pensare che di fronte ad un delitto, di fronte a forme di oppressione contro gli innocenti, non sia lecito fare qualcosa che impedisca l'esercizio di questa violenza. Questa violenza "difensiva" mi appare così più legittima di una astensione, che suonerebbe come apparente indifferenza di fronte all'oppressione che colpisce nostri fratelli e sorelle. Questo spiega perché molte persone insospettabili, siano state al fianco dei guerriglieri che lottavano contro quella violenza imperante. Una persona meno violenta di mons. Romero è difficile trovarla: ebbene, Romero era vicino al suo popolo in lotta, anche quando questa lotta era una lotta armata contro la violenza oppressiva; quella stessa violenza che fu all'origine del suo assassinio.
Nella violenza del Che, nella sua concezione dell'avan-guardia, c'è sempre questo fattore: la guerriglia non ha senso se non è espressione di una mobilitazione popolare. Credo sia importante per non ridurre l'azione del Che solo alla guerriglia e alla lotta armata. Il Che combatte perché sente di interpretare in questo modo le aspirazioni di un popolo che soffre e si impegna per la propria liberazione.

Tu, da ormai moltissimi anni, sei tra gli esponenti più autorevoli del dialogo tra cattolici e marxisti, una delle punte avanzate della teologia postconciliare. E della chiusura del Concilio si è recentemente celebrato il 40.mo anniversario. Cosa rimane, a tuo giudizio, del fermento che ha caratterizzato quegli anni?
L'ipotesi che io assumo per interpretare questo grande evento nella storia della Chiesa è che c'è stata all'interno del Concilio una duplice tendenza tra forme di pensiero profondamente diverse ed anche, in qualche modo, contrapposte. Una prima linea faceva riferimento all'ecclesiocentri-smo, ed era una tendenza minoritaria che in fondo era conservatrice, e manteneva fede al modello di chiesa costantiniana. Un'altra tendenza era invece preoccupata che il Concilio fosse una parola nuova, più avanzata e in dialogo col mondo: una corrente che definirei "antropocentrica" nel senso che non si limiterà a mettere al centro della propria riflessione l'uomo in astratto, ma quella particolare qualità di uomini che sono i poveri, quella particolare qualità dei popoli che sono i popoli oppressi.
Di fronte a queste due tendenze chiaramente definite, ed essendo quella ecclesiocentrica fortemente orientata e influenzata dalla Curia romana, devo dire che rifarsi al Concilio rimane qualcosa di ambiguo, come risulta evidente dai riferimenti al Concilio fatti in questi anni da Wojtyla e Ratzinger: entrambi si richiamano a quella esperienza nella sua dimensione esclusivamente ecclesiocentrica, per ribadire la fedeltà all'ortodossia. Ma c'è chi invece si rifà al Concilio nella sua versione antropocentrica e si ritiene incoraggiato a riprodurre e anzi a prolungare e approfondire le conclusioni del Concilio. E credo che su questa linea vada collocata la Teologia della Liberazione, che approfondisce l'apertura al mondo come apertura al Terzo mondo, l'apertura all'uomo come apertura all'uomo e alla donna poveri.
Dopo il Concilio è avvenuto un forte spostamento di settori della maggioranza conciliare, che sono andati ad ingrossare le file della minoranza conservatrice, divenuta sempre più repressiva nei confronti della linea progressista. Nella fase attuale, la TdL e coloro che vi si ispirano sono certamente una minoranza nella Chiesa, pur essendo i più coerenti interpreti della linea maggioritaria del Concilio.

Quale aspetto del fermento postconciliare manca di più oggi?
Manca un riconoscimento della validità di questa tendenza innovatrice e dei suoi approfondimenti teologici e pastorali; manca una capacità di comprendere come in questi movimenti si giochi gran parte del futuro della Chiesa, manca una capacità di dialogo serio e approfondito con il marxismo e l'ateismo; manca una capacità di dialogo con le altre religioni: il pluralismo religioso è uno degli orientamenti che sotto papa Wojtyla, e particolarmente per opera dell'allora card. Ratzinger, è stato più condannato, mentre l'apertura alle altre confessioni religiose è certamente un fattore essenziale per la ricerca teologica, un prolungamento ed un approfondimento di quello che fu definito il "macroecumenismo".

Nel breve-medio periodo c'è possibilità che questi aspetti che hai toccato possano realizzarsi, o l'abban-dono della linea ispiratrice del Concilio ti sembra ormai irreversibile?
Ritengo sia una possibilità persa per la maggioranza della Chiesa, ma non è persa in assoluto. Credo che il futuro della Chiesa, il futuro evangelico della Chiesa, sia inscindibilmente legato a questo tentativo di identificazione con i poveri del Terzo Mondo e all'apertura alle altre religioni. Questioni che aprono vie nuove e molto impegnative. Proprio per questo la TdL e quelli che vi si ispirano sono, credo, destinati per molto tempo a rimanere "resto di Israele".

Nei tuoi libri continui a parlare del socialismo. Perché riproporre oggi questo modello?
Io credo che la parola socialismo può avere molti significati, ed è per questo che è diventata ambigua. Meglio quindi non insistere troppo sul termine, quanto su un concetto, sviluppato del resto dallo stesso Che Guevara, ossia che non può esserci una nuova società se non ci sono uomini nuovi e donne nuove. Porre quindi l'accento non tanto sulle strutture economiche e politiche, che pure verranno, né solo sulla critica all'attuale sistema economico e politico mondiale, ma soprattutto sulla necessità di uomini e donne capaci di dedizione, creatività: ossia, sui possibili costruttori di una nuova società.
La critica nei confronti delle realizzazioni storiche del socialismo è che in esse non era realmente protagonista il popolo, ma movimenti e figure spesso autoritarie che non hanno saputo riconoscere e valorizzare il contributo delle masse. Esempi come quelli di Cuba e del Nicaragua testimoniano come sia stato fondamentale il protagonismo del popolo nel successo della rivoluzione. Il consenso e il sostegno popolare continuano a rendere valida e originale l'esperienza cubana. L'esperienza nicaraguese invece, dopo la fase della vittoria, ha subìto un sconfitta etica, prima ancora che politica ed elettorale. Ritengo che questa sconfitta sia stata provocata, tra altre ragioni, dal fatto che il gruppo dirigente ha perso la sua base di consenso nelle masse, e soprattutto tra i poveri. Perdendo così la sua legittimazione.

da  ADISTA Documenti n.4  2006