Quel ragazzo senza braccia sul treno dell'indifferenza

Caro direttore, è domenica 27 dicembre. Eurostar Bari-Roma. Intorno a me famiglie soddisfatte e
stanche dopo i festeggiamenti natalizi, studenti di ritorno alle proprie università, lavoratori un po'
tristi di dover abbandonare le proprie città per riprendere il lavoro al nord. Insieme a loro un
ragazzo senza braccia.
Sì, senza braccia, con due moncherini fatti di tre dita che spuntano dalle spalle. È salito sul treno
con le sue forze. Posa la borsa a tracolla per terra con enorme sforzo del collo e la spinge con i piedi
sotto al sedile. Crolla sulla poltrona. Dietro agli spessi occhiali da miope tutta la sua sofferenza
fisica e psichica per un gesto così semplice per gli altri: salire sul treno. Profondi respiri per calmare
i battiti del cuore. Avrà massimo trent'anni.
Si parte. Poco prima della stazione di (...) passa il controllore. Una ragazza di venticinque anni
truccata con molta cura e una divisa inappuntabile. Raggiunto il ragazzo senza braccia gli chiede il
biglietto. Questi, articolando le parole con grande difficoltà, riesce a mormorare una frase
sconnessa: "No biglietto, no fatto in tempo, handicap, handicap". Con la bocca (il collo si piega
innaturalmente, le vene si gonfiano, il volto gli diventa paonazzo) tira fuori dal taschino un
mazzetto di soldi. Sono la cifra esatta per fare il biglietto. Il controllore li conta e con tono
burocratico dice al ragazzo che non bastano perché fare il biglietto in treno costa, in questo caso,
cinquanta euro di più. Il ragazzo farfugliando le dice di non avere altri soldi, di non poter pagare
nessun sovrapprezzo, e con la voce incrinata dal pianto per l'umiliazione ripete "Handicap,
handicap".

I passeggeri del vagone, me compreso, seguono la scena trattenendo il respiro, molti con lo sguardo
piantato a terra, senza nemmeno il coraggio di guardare. A questo punto, la ragazza diventa più dura
e si rivolge al ragazzo con un tono sprezzante, come se si trattasse di un criminale; negli occhi ha
uno sguardo accusatorio che sbatte in faccia a quel povero disgraziato. Per difendersi il giovane
cerca di scrivere qualcosa per comunicare ciò che non riesce a dire; con la bocca prende la penna
dal taschino e cerca di scrivere sul tavolino qualcosa. La ragazza gli prende la penna e lo rimprovera
severamente dicendogli che non si scrive sui tavolini del treno. Nel vagone è calato un silenzio
gelato. Vorrei intervenire, eppure sono bloccato.
La ragazza decide di risolvere la questione in altro modo e in ossequio alla procedura appresa al
corso per controllori provetti si dirige a passi decisi in cerca del capotreno. Con la sua uscita di
scena i viaggiatori riprendono a respirare, e tutti speriamo che la storia finisca lì: una riprovevole
parentesi, una vergogna senza coda, che il controllore lasci perdere e si dedichi a controllare i
biglietti al resto del treno. Invece no.
Tornano in due. Questa volta però, prima che raggiungano il giovane disabile, dal mio posto blocco
controllore e capotreno e sottovoce faccio presente che data la situazione particolare forse è il caso
di affrontare la cosa con un po' più di compassione.
Al che la ragazza, apparentemente punta nel vivo, con aria acida mi spiega che sta compiendo il suo
dovere, che ci sono delle regole da far rispettare, che la responsabilità è sua e io non c'entro niente.

Il capotreno interviene e mi chiede qual è il mio problema. Gli riepilogo la situazione. Ascoltata la
mia "deposizione", il capotreno, anche lui sulla trentina, stabilisce che se il giovane non aveva fatto
in tempo a fare il biglietto la colpa era sua e che comunque in stazione ci sono le macchinette self
service. Sì, avete capito bene: a suo parere la soluzione giusta sarebbe stata la macchinetta self
service. "Ma non ha braccia! Come faceva a usare la macchinetta self service?" chiedo al capotreno
che con la sua logica burocratica mi risponde: "C'è l'assistenza". "Certo, sempre pieno di assistenti
delle Ferrovie dello Stato accanto alle macchinette self service" ribatto io, e aggiungo che le regole
sono valide solo quando fa comodo perché durante l'andata l'Eurostar con prenotazione obbligatoria
era pieno zeppo di gente in piedi senza biglietto e il controllore non è nemmeno passato a
controllare il biglietti. "E lo sa perché?" ho concluso. "Perché quelle persone le braccia ce
l'avevano...".

Nel frattempo tutti i passeggeri che seguono l'evolversi della vicenda restano muti. Il capotreno
procede oltre e raggiunto il ragazzo ripercorre tutta la procedura, con pari indifferenza, pari
imperturbabilità. Con una differenza, probabilmente frutto del suo ruolo di capotreno: la sua
decisione sarà esecutiva. Il ragazzo deve scendere dal treno, farsi un biglietto per il successivo treno
diretto a Roma e salire su quello. Ma il giovane, saputa questa cosa, con lo sguardo disorientato,
sudato per la paura, inizia a scuotere la testa e tutto il corpo nel tentativo disperato di spiegarsi;
spiegazione espressa con la solita esplicita, evidente parola: handicap.
La risposta del capotreno è pronta: "Voi (voi chi?) pensate che siamo razzisti, ma noi qui non
discriminiamo nessuno, noi facciamo soltanto il nostro lavoro, anzi, siamo il contrario del
razzismo!". E detto questo, su consiglio della ragazza controllore, si procede alla fase B: la polizia
ferroviaria. Siamo arrivati alla stazione di (...). Sul treno salgono due agenti. Due signori tranquilli
di mezza età. Nessuna aggressività nell'espressione del viso o nell'incedere. Devono essere abituati
a casi di passeggeri senza biglietto che non vogliono pagare. Si dirigono verso il giovane disabile e
come lo vedono uno di loro alza le mani al cielo e ad alta voce esclama: "Ah, questi, con questi non
ci puoi fare nulla altrimenti succede un casino! Questi hanno sempre ragione, questi non li puoi
toccare". Dopodiché si consultano con il capotreno e la ragazza controllore e viene deciso che il
ragazzo scenderà dal treno, un terzo controllore prenderà i soldi del disabile e gli farà il biglietto per
il treno successivo, però senza posto assicurato: si dovrà sedere nel vagone ristorante.
Il giovane disabile, totalmente in balia degli eventi, ormai non tenta più di parlare, ma
probabilmente capisce che gli sarà consentito proseguire il viaggio nel vagone ristorante e allora
sollevato, con l'impeto di chi è scampato a un pericolo, di chi vede svanire la minaccia, si piega in
avanti e bacia la mano del capotreno.

Epilogo della storia. Fatto scendere il disabile dal treno, prima che la polizia abbandoni il vagone, la
ragazza controllore chiede ai poliziotti di annotarsi le mie generalità. Meravigliato, le chiedo per
quale motivo. "Perché mi hai offesa". "Ti ho forse detto parolacce? Ti ho impedito di fare il tuo
lavoro?" le domando sempre più incredulo. Risposta: "Mi hai detto che sono maleducata". Mi alzo e
prendo la patente. Mentre un poliziotto si annota i miei dati su un foglio chiedo alla ragazza di dirmi
il suo nome per sapere con chi ho avuto il piacere di interloquire. Lei, dopo un attimo di
disorientamento, con tono soddisfatto, mi risponde che non è tenuta a dare i propri dati e mi dice
che se voglio posso annotarmi il numero del treno.
Allora chiedo un riferimento ai poliziotti e anche loro si rifiutano e mi consigliano di segnarmi
semplicemente: Polizia ferroviaria di (...). Avrei naturalmente voluto dire molte cose, ma la signora
seduta accanto a me mi sussurra di non dire niente, e io decido di seguire il consiglio rimettendomi
a sedere. Poliziotti e controllori abbandonano il vagone e il treno riparte. Le parole della mia vicina
di posto sono state le uniche parole di solidarietà che ho sentito in tutta questa brutta storia. Per il
resto, sono rimasti tutti fermi, in silenzio, a osservare.


Shulim Vogelmann     la Repubblica  30 dicembre 2009

L'autore è scrittore ed editore