Il muro di Berlino cadde sulla testa
della sinistra italiana come il giorno del Signore nella prima lettera
di Paolo ai Tessalonicesi: «Voi sapete bene che il giorno del Signore
arriverà come un ladro, di notte. Proprio quando la gente dirà “Pace e
sicurezza”, improvvisa piomberà su di essi la rovina, allo stesso modo
che arrivano alla donna incinta i dolori del parto. E non scamperanno».
Per alcuni nel partito comunista italiano fu proprio così: Alessandro
Natta, che fino all’88 aveva guidato il Pci, confidò a Claudio
Petruccioli (era il 10 novembre, poche ore dopo la notte fatale) che
«Hitler aveva vinto».
Fu in quei giorni che il suo successore, Achille Occhetto, cominciò a
parlare, alla Bolognina, della Cosa: non riuscì ancora a darle un nome,
ma sentì che per scampare bisognava subito inventarsi un partito nuovo e
soprattutto un nome che facesse dimenticare il passato con i suoi tanti
pensieri falsi, le sue doppie verità, le sue volontarie impotenze. Per
molti militanti fu una scossa, perché il passato non lo dismetti in una
notte alla maniera in cui Stalin dismetteva storie e compagni,
cancellandone le tracce.
Perché il nuovo non puoi definirlo una Cosa, solo perché hai paura
di usare parole tragicamente disonorate come progetto, ideologia, meta.
Non solo: se i vertici cambiarono così prontamente strada, vuol dire che
per decenni avevano nascosto alla base il vero: se avessero parlato
prima, non avrebbero permesso che l’Italia restasse senza alternanza per
quasi mezzo secolo.
Da allora sono passati vent’anni, e gli eredi del Pci ancora
soffrono quel congedo precipitoso, quel vocabolario che d’un colpo si
svuota. Ci sono parole che lasciano l’impronta anche se
son nebbia, e un destino simile toccò alla Cosa. Al posto
dell’idea del mondo, comparve questo sostantivo che è un annuncio, un
guscio che si promette di riempire: «un nome generico - scrive il Devoto
- che riceve determinazione solo dal contesto del discorso». Tutto da
allora è stato futuro appeso a un contesto indeterminato: anche le
primarie, cui si era chiamati a aderire senza saper bene a cosa si
aderisse. Anche la speranza di coniugare le due forze fondatrici della
repubblica: il socialismo e il cattolicesimo, dimenticando (lo storico
Giuseppe Galasso l’ha ricordato il 30 agosto sul Corriere della Sera) il
terzo incomodo che è la tradizione laica, liberale, radicale.
Riesaminando l’ultimo ventennio, Arturo Parisi parla del controllo che
le nomenclature dell’ex Pci hanno finito con l’acquisire sull’Ulivo, e
del patto stretto da esse con i falsi innovatori dello stesso partito. I
candidati segretari regionali provenienti dai Ds erano nelle ultime
primarie il 75 per cento del totale, facendo «coincidere la geografia
elettorale del Pd con i confini del voto comunista» e sconfiggendo
l’Ulivo (intervista a Gianfranco Brunelli, Il Regno 16/2009).
Forza indispensabile della sinistra ma non bene identificata, l’ex
Pci l’ingombra con il peso, non leggero, di una storia ripudiata. Sono
anni che espia, fino all’eccesso, un passato di cui tuttavia non vuol
parlare. Il centrismo, i toni bassi, la tregua fra i poli, la
politica senza contrapposizioni: siamo in un paese dove il principale
partito di sinistra, vergognandosi del passato, non fa vera opposizione
per tema di somigliare a quel che era. Dallo spirito dell’89 ha appreso
poco. Lo stato di diritto, l’onestà delle élite, la scoperta del
conflitto sale della democrazia: la liberazione dell’89 ha preso da noi
la forma di Mani Pulite, senza lambire la politica. Inutile prendersela
con i magistrati, se l’ansia di rigenerazione hanno finito con
l’esprimerla solo loro. Bersani ha preso atto, ieri, che dialogo è ormai
una «parola malata e ambigua».
L’espugnazione dell’Ulivo e del Pd non crea identità.
Anche il socialismo italiano fu espugnato così: usurpandolo, non
integrandolo e cercando di capire l’altrui tracollo oltre che il
proprio. Anche per il socialismo italiano la caduta del Muro spuntò
infatti come un ladro notturno. Le metamorfosi del Pci sono una storia
di crudele appropriazione, ma il socialismo è non meno colpevole di
questo furto di vocaboli e identità. Non è mai riuscito a divenire
dominante, come nel resto d’Europa. E quando con Craxi volle disputare
la rappresentanza della sinistra al Pci non seppe trarne le conseguenze:
continuò nei suoi doppi giochi, prospettò l’unità delle sinistre senza
rinunciare a spartire potere, non si rinnovò moralmente ma degradò sino
a divenire il simbolo della corruttela italiana.
In un lucido saggio sull’Italia, lo storico Perry Anderson descrive un
partito socialista che ingenera il berlusconismo, spiegando come questi
sia erede dell’ultimo Psi più che della Dc (London Review of Books,
21-3-02). La spregiudicatezza di Craxi è un tratto speciale e
irripetibile della nostra cultura. Altrove lo spregiudicato è
figura settecentesca che combatte pregiudizi, dogmi: non coincide con
l’uomo senza scrupoli. Da noi i due tratti si confondono, e
spregiudicatezza è encomiabile virtù di chi sprezza le regole, la legge,
l’etica, nella certezza che il potere renda tutto lecito se non legale.
L’intera classe dirigente ne è responsabile, e non stupisce che
da decenni l’agenda della politica sia dettata da Berlusconi.
Occhetto sperava forse in una svolta autentica. Sperava in una carovana
che viaggiando associasse forze diverse, e temeva la caserma anelata da
Massimo D’Alema. Un timore che si rivelò giustificato, ma che non vede
il solo D’Alema sul banco degli imputati. Questi fu almeno chiaro:
l’Ulivo non gli piacque mai. Più colpevoli furono i falsi innovatori,
che promettevano senza mantenere: che non hanno esitato, come Veltroni,
a distruggere l’ultimo governo Prodi. Ciononostante è D’Alema la
persona chiave del ventennio. In qualche modo è restato quel che era,
senza più dogmi ma con inalterata volontà di potenza. Dei
comunisti ha la stessa insofferenza verso il dissenso, lo stesso
fastidio freddo verso la stampa indipendente. Sono sue e non di
Berlusconi frasi come: «I giornali? È un segno di civiltà non leggerli.
Bisogna lasciarli in edicola». La morte temporanea dell’Unità, nel 2000,
lo testimonia. Michele Serra parlò di delitto perfetto su la Repubblica:
«La fine dell’Unità, forse più ancora della Bolognina, illumina lo
sconquasso identitario della sinistra italiana. Ne racconta le
insicurezze, i complessi di inferiorità, l’incerto e poco lineare
incedere verso una modernità spesso vissuta da praticoni».
Vivere la modernità da praticoni è l’abbandono dell’ideologia, in
nome dell’antidogmatismo. Il fatto che le ideologie
totalitarie siano perite, non significa che un partito possa solo vivere
di volontà di potenza, e su essa fabbricare inciuci. Che possa
continuare a ricevere il colore da discorsi effimeri. Dotarsi di
un’ideologia vuol dire avere un sistema coerente di immagini, metafore,
princìpi etici. Vuol dire pensare un diverso rapporto con gli stranieri,
la natura, il lavoro che muta, l’immaginario. A differenza della
politica quotidiana, l’ideologia ha una durata non breve ma media, e la
durata non è imperfezione. È perché non aveva idee sull’informazione di
massa e sulla società di immigrazione che la sinistra fu travolta da
Berlusconi. Che non seppe adottare, subito, una legge sul conflitto
d’interesse. Che giunse sino a chiamare la Lega una propria costola.
Perry Anderson ritiene che la nostra sinistra sia invertebrata.
Una Cosa appunto, senza scheletro: un metamorfo, come nel film
di Carpenter. Il suo sogno ricorrente è quello d’un paese normale:
un’altra Cosa - imprecisa, mimetica - che dall’89 cattura gli spiriti.
La sinistra invertebrata ha corteggiato Clinton, Blair, Schröder,
tessendo elogi del moderatismo, del centrismo. Vita normale, per la
sinistra, ha significato sin qui smobilitazione ideologica, conformismo:
il nuovo ancora lo si aspetta. |