Quei silenzi sul
lavoro nero
Mi sono chiesto molte volte perché in Italia le associazioni imprenditoriali non
protestino mai o
quasi mai contro le nostre stringenti e anacronistiche politiche
dell´immigrazione. Altrove sono le
rappresentanze dei datori di lavoro ad alzare la voce quando si abbassano le
quote di ingresso,
impedendo l´arrivo di nuovi immigrati. Chi paga il lavoro di altri ha
tutto da guadagnare nell´avere
manodopera a basso costo, come quella immigrata. Paradossalmente in
Italia sono invece i
sindacati, tra le cui fila ci sono molti lavoratori poco qualificati che possono
legittimamente temere
la competizione salariale dei nuovi arrivati, che si sono opposti, soprattutto
per ragioni ideologiche,
alla chiusura delle frontiere, mentre le associazioni di categoria sono state
silenti nell´accogliere
leggi, come la Bossi-Fini, che impongono vere e proprie forche caudine ai
lavoratori e datori di
lavoro che vogliano mettersi in regola. Perché?
La risposta ci viene da vicende come quella di Rosarno e dalla prima indagine
rappresentativa degli
immigrati clandestini, condotta in Italia. Gli immigrati arrivano comunque
perché le restrizioni sugli
ingressi non vengono minimamente rispettate. Sarà così fin quando
continueremo a tollerare il
lavoro nero: gli immigrati vengono da noi sfidando ogni restrizione perché in
Italia si trova
facilmente lavoro senza aver bisogno di avere un permesso di soggiorno. Quindi i
datori di lavoro
trovano comunque le braccia a basso costo di cui hanno bisogno. Ma c´è
di più: dato che si tratta di
immigrati irregolari, in attesa di regolarizzare la loro posizione, possono
pagarli ancora meno di quanto pagherebbero gli immigrati regolari.
È una forma più o meno esplicita di ricatto: o accetta
queste condizioni, oppure il lavoratore viene denunciato o comunque non aiutato
a regolarizzarsi
alla prossima sanatoria. Reati come quello di immigrazione clandestina
servono solo a permettere di
meglio esercitare questo ricatto, non certo a ridurre gli arrivi di irregolari.
I disperati che raccoglievano le arance a Rosarno guadagnavano 18 euro al
giorno, con una paga
oraria di due euro. Avevano paghe cinesi in un paese in cui il costo della vita
è quasi cinque volte
superiore che a Pechino, dove peraltro i datori di lavoro offrono agli immigrati
un alloggio, seppur
precario. Non solo in Italia, ma in tutto il mondo, la televisione ha fatto
vedere in che condizioni
vivevano gli immigrati di Rosarno. La Bbc, che aveva denunciato casi come quelli
di Rosarno più
di un anno fa senza stimolare alcuna reazione da parte delle autorità nazionali
o locali, ha
sottolineato come fossero condizioni peggiori che nelle baraccopoli dei paesi in
via di sviluppo.
Questo uso delle leggi dell´immigrazione per pagare ancora di meno il lavoro
degli immigrati non è
limitato al solo Mezzogiorno. Anche al Nord chi è senza permesso di soggiorno o
in attesa del suo
rinnovo viene pagato, a parità di altre condizioni (tipo di lavoro, età,
qualifica e genere), molto di
meno di chi è in regola. Questo fatto emerge da un´indagine svolta da
Erminero&Co per conto della
Fondazione Rodolfo Debenedetti, nei mesi di novembre e dicembre 2009, in 8 città
italiane ad alta
densità di immigrati (Alessandria, Bologna, Brescia, Lucca, Milano, Prato,
Rimini e Verona). Sin
qui i dati sugli immigrati venivano raccolti mediante interviste a persone
casualmente estratte
dall´Anagrafe, che non contiene chi non è regolarmente in Italia. Oppure c´erano
state indagini presso i
centri della Caritas o di altre organizzazioni umanitarie che forniscono
assistenza agli immigrati: il
problema con questo metodo di rilevazione è che raccoglie informazioni solo su
quegli immigrati
irregolari che hanno talmente bisogno di vitto e alloggio da correre il rischio
di rivolgersi a dei
centri nei pressi dei quali ci potrebbero essere più frequenti controlli di
polizia. L´indagine svolta
nelle 8 città si è basata, invece, sul campionamento casuale di isolati, in aree
ad alta densità di
immigrati.
Ecco i primi dati: il 40 per cento di coloro che non hanno un
permesso di soggiorno viene pagato
meno di 5 euro all´ora contro il 10% tra chi è in regola. Otto irregolari su
dieci lavorano anche il
sabato e in quattro su dieci anche la domenica; tra chi ha un permesso di
soggiorno queste
percentuali sono significativamente più basse.
Chi assume un lavoratore immigrato, traendo benefici dal basso costo del suo
lavoro, dovrebbe
contribuire a sostenere le spese per la sua integrazione (scuola, sanità e
servizi sociali) e pagarlo al
punto da fargli raggiungere uno standard di vita tale da permettergli una
convivenza civile con la
popolazione autoctona. Da noi, invece, avviene esattamente l´opposto. Si
entra facilmente ma poi la
regolarizzazione è un percorso ad ostacoli che attribuisce un forte potere
contrattuale al datore di
lavoro. Insomma le nostre leggi sembrano essere fatte apposta per
aumentare i benefici privati
dell´immigrazione e per socializzarne i costi. Tra questi costi bisognerebbe
aggiungere anche quello di non permettere agli immigrati di avere diritti
civili.
È un costo anche quello perché se avessero una voce, una
rappresentanza a livello locale e nazionale, il loro disagio potrebbe esprimersi
in modo
civile, prima che si superi il livello di guardia.
Tito Boeri la Repubblica 14 gennaio 2010
Il made in Italy
degli immigrati
Le cronache raccontano: «Fatti gravi avvennero a Minervino nelle Murge (un
medico, per
allontanarli dalla sua casa, in cui la moglie era gravemente inferma, sparò sui
dimostranti
uccidendone uno e fu a sua volta ucciso), a Molfetta, a Bagnacavallo, ad Ascoli
Piceno, a Piacenza,
a Torre Annunziata, a Sesto Fiorentino, a Soresina, a Livorno, quasi dappertutto
con morti (tre,
quattro, cinque per località) e molti feriti fra i dimostranti». Si parla di
braccianti agricoli che
scioperano e subiscono violenze, ma siamo nella primavera del 1898, all´alba di
un "Sol dell
´Avvenire" che forse sembrava tramontato, ma non lo è per niente ed ha cambiato
pelle. È nera o
scura, ha gli occhi a mandorla o parla con accento Est europeo. Sono i
braccianti che popolano le
nostre terre, il popolo d´immigrati che svolge i lavori che non vogliamo più
fare, i più umili e
indispensabili. Primo tra tutti quello agricolo. Con tempestività e un
po´ di scaltrezza politica si è proposto, dopo i fatti di Rosarno, di introdurre
un´etichettatura etica per i nostri cibi, come avviene in alcuni casi per i
palloni da calcio e per l´abbigliamento.
Temo che non sarà con un´ulteriore etichetta che aiuteremo le
persone nel diritto-
dovere di essere informate su ciò che mangiano. Nemmeno faremo un buon servizio
a un "made in
Italy" agroalimentare tanto sbandierato ma che in realtà nasconde sempre di
più quella pelle scura, i
tratti somatici esotici, molte lingue che non ci sogniamo di comprendere.
Gente sempre più indesiderata, ma insostituibile. È il made in Italy dei
macedoni che coltivano le
vigne del Barolo, dei Sick indiani che mungono le mucche in quella chiamata
Padania, dei
maghrebini che fanno la Fontina in Val d´Aosta e degli ex-sovietici che
raccolgono la frutta e la
verdura nelle zone vocate. Esempi d´integrazione (o forzata accettazione?) in
alcuni casi, ma fonte
di tensioni sempre più forti in altri: i pomodori, le arance, i mandarini.
Non è un popolo segreto, quello di questi migranti-braccianti. Ne parlano spesso
le cronache, tutti
più o meno sappiamo che ci sono, perché li vediamo con i nostri occhi aspettare
i furgoni e i
camioncini su cui salgono la mattina presto, ma ci voltiamo dall´altra parte,
e intanto esaltiamo e
difendiamo a suon di comunicati stampa il made in Italy senza sentirli
come fratelli, senza
difenderli. Anche questo è il "mangiare italiano".
In tutto il dramma e la vergogna dei fatti di Rosarno non sono
certo emersi i nomi dei produttori che
impiegano questi braccianti, né tantomeno quelli dei caporali, loschi figuri che
a me ricordano tanto
i "coyotes" centroamericani: gli intermediari che lucrano alle spalle dei
contadini del caffè e del
cacao, togliendo loro quasi tutto. In questo caso i "coyotes" sono
italiani, quindi non si toccano.
I proprietari delle piantagioni di agrumi o di pomodori dal canto loro possono
fare poco (ma non
niente). Un´agricoltura al collasso, in crisi come mai si era visto in Italia
nel secondo dopoguerra,
vede pagare le derrate un´inezia al produttore, che a questo punto è quasi è
costretto e rimestare nel
torbido, ad affidarsi a una manodopera di fatto schiavizzata. Guerra tra poveri,
l´han chiamata, ma
voglio vedere quanto sono poveri i "coyotes" d´Italia, tutti quelli che
lucrano sul lavoro agricolo e
sul cibo, sulle semplici speranze dei braccianti e sulle legittime aspirazioni
dei contadini della
Penisola.
A ben vedere siamo tutti in qualche modo responsabili: un po´ i
proprietari terrieri che devono stare
nei costi, un po´ l´industria che compra le materie prime, le trasforma e se ne
lava le mani, un po´ la
grande distribuzione che impone i prezzi a lei più convenienti; più o meno
inconsapevolmente
anche noi consumatori, che vogliamo prezzi sempre più bassi per il nostro cibo
senza però chiederci
come sia possibile che siano così bassi. Qualcuno lo deve pur dire: la
maggior parte del nostro cibo
costa troppo poco, dobbiamo pagarlo un po´ di più e magari rinunciare ad altri
consumi, altrimenti
ci saranno tante altre Rosarno, qui e nel resto del mondo.
Non ci vuole un´etichetta per essere sicuri di avere la
coscienza a posto se si compra, vende o
trasforma. Magari per far sì che poi i prodotti senza certificazione possano
partire o arrivare da e per
altre destinazioni. L´etica deve essere intrinseca al prodotto e ai suoi
processi: l´unica via
percorribile è l´autocertificazione di chi maneggia il nostro cibo.
Starà poi a noi vigilare e
respingere i prodotti di chi sgarra. Perché è responsabilità di tutti non
accettare queste situazioni in
nome del profitto. Il "mangiare italiano" deve diventare questo, se proprio
poi vogliamo riuscire a
esaltarlo ancora. E dobbiamo essere consci che "locale" sempre di più saprà
d´Asia e d´Africa,
senza muoversi dall´Italia, perché è la realtà e non dobbiamo rifiutarla, ma
piuttosto riuscire a
renderla migliore: accettando umanamente, pagando il giusto, aprendoci agli
scambi com´è sempre
stato in ogni storia di ogni cibo e di ogni tradizione.
Rosarno è soltanto un´altra delle molteplici facce drammatiche di un sistema
agro-alimentare che
boccheggia, che andrà cambiato in profondità perché sta facendo arretrare
spaventosamente ciò che
si chiama civiltà, e non – bontà di chi se ne riempie la bocca – "made in
Italy".
Carlo Petrini la Repubblica 14 gennaio
2010